- Carlo Tiezzi & Giuseppe Scrofani
Tra l’Abisso e la Finzione: Il Paradosso della Solitudine Umana
Aggiornamento: 18 set
Abstract
Il saggio afferma che la vita umana, per essere tale, ha il bisogno di trovare un significato a sé stessa, e al resto delle cose; cosa impossibile in un cosmo intrinsicamente insensato come il nostro. A questo punto, lo scritto mette in luce l'arbitrarietà dell'atto del "significare", e la comunicazione verbale come madre dell'identità interpersonale, sottintendendo l'incomunicabilità come prima nemica dell'umanità. Tutto questo viene affrontato coinvolgendo il lettore in un viaggio appassionante che va dalla descrizione esistenziale della vita dei soggetti autistici, alla risoluzione del dramma umano nell'imposizione di significato.
Introduzione
Un marinaio è sdraiato su dei fili d’erba. È solo. Il suo sguardo è perso nell’immensità d’un cielo nero. L’uomo si sente piccolo e ha paura: teme di non riuscire più a riconoscere le costellazioni: quelle piccole linee immaginarie che donano ordine al firmamento. L’uomo sa che sopra il velo della notte questi tratti non vi sono, sa che alla morte di tutti gli uomini, questi disegni celesti, appassiranno, sino a dissolversi nel buio. Eppure, è certo che non sarebbe mai riuscito a sopportare il peso di quella altissima oscurità, senza potervi riconoscere il volto di una dolcissima Vergine.
Nel profondo del suo cuore, balena un pensiero: si chiede se avrebbe mai avuto il coraggio di sfidare i vènti, se avrebbe mai potuto patire il freddo, la fame e la stanchezza, se non avesse avuto al fianco suo, stelle pronte a illuminargli la via verso casa, se non avesse mai avuto un orizzonte da inseguire.
Il grido nel buio
Nascere, è essere travolti dall’essere: nessuno ci prepara a venire al mondo, nessuno ci chiede il permesso di innescare il primo battito nel nostro petto. Eppure, senza preavviso, ci troviamo scaraventati in un mondo che non ci appartiene, sperduti in un cosmo immensamente freddo e buio.
Immersa in un gioco di cui non conosce le regole, una coscienza, viene alla luce.
Tutto ci è estraneo, ed è proprio l’esistere sotto il peso di questa estraneità a terrorizzarci: poiché tutto sembra sfuggire alla nostra comprensione, ed è l’ignoto ad atterrire un’anima.
Nel momento del nostro primo respiro, v’è una assoluta incapacità di estrapolare un senso, un ordine dal caos del reale, quando, paradossalmente, ciò che fa guadagnare ad una vita l’aggettivo di umana, è proprio il suo non risolversi nel mero appagamento pulsionale. L’elemento imprescindibile per l'umanizzazione d’una vita è infatti la domanda di senso, il desiderio d’una direzione verso la quale tendere, che nel contesto del nascere, non può che tradursi in un disperato grido nel buio, una richiesta di soccorso, il bisogno d’una rivelazione di significato che non può partire da noi, ma da ciò che ci è altro.
Un eco nell’abisso
Nasciamo quindi con il bisogno di significato scritto nel petto, e una categorica impossibilità di raggiungerlo. Se un puledro dopo poche ore è già in grado di correre, per un bambino, invece, ogni passo è incertezza, ogni tentativo di muoversi nel mondo diviene uno stentare confuso e dubbioso.
Veniamo alla luce prematuri, dipendenti dagli altri tanto nel sopravvivere al mondo, quanto nel vivere nel mondo. Se per sopravvivere ci bastano i nutrienti trasmessi dal latte materno, per vivere, invece, abbiamo bisogno del significato, che viene tramandato attraverso il linguaggio. Di fatti, una prima risoluzione per il profondo contrasto tra il bisogno di significato nell’uomo e l’insignificanza dell’universo, si trova nella comunicazione.
È proprio attraverso questa che vengono ereditati gli strumenti che ogni individuo userà per rapportarsi al mondo. È la parola il mezzo per astrarre un sistema di significati unitario davanti all’entropia dalla quale veniamo investiti sin dal nostro primo respiro.
Il dono del senso avviene prima di tutto nel rapporto con i genitori, che si comporteranno come dei veri e propri interpreti per il figlio, associando a comportamenti, eventi ed emozioni uno specifico significato. Saranno dei Virgilio nell’Inferno del Reale. Nel momento in cui una madre sorride a suo figlio, e nel momento in cui questo ricambia con un sorriso, per la prima volta viene associato un significato al caos di significanti nel quale era stato gettato il bambino. Tale comunicazione andrà avanti per anni, e si farà sempre più complessa, passando dall’istantaneità delle sensazioni alla complessità del linguaggio. Con l’andare del tempo il bambino andrà a perdere la sua immediatezza e otterrà dei mezzi per interpretare il reale.
È proprio qui che avviene il passaggio da reale a realtà, da un caos dinamico di rapporti materiali a una fitta catena di simboli e immagini, dalla cui unione fiorisce il significato.
Il bisogno di significato nell’uomo, è quindi appagato, almeno agli albori della nostra esistenza, da un processo ereditario. Non creiamo un significato, ma ci viene tramandato.
Una vita non abbastanza umana
La nostra comprensione del tutto, ha quindi davvero poco di “nostro”, ed è intimamente “altra”. Senza una fitta trama interpretativa ci ritroveremmo smarriti in un mondo frammentario, e il nostro agire si farebbe confuso e convulso. Un individuo che non ha attraversato questo processo, cioè che non ha ereditato il significato dai suoi genitori, vivrà in una terribile nebulosa emotiva, in uno sciame di significanti insensati. Sarà vittima di sé stesso, di emozioni a cui non riuscirà a dare un nome, e che quindi troverà ingestibili. Saremo davanti a un soggetto incapace di dare un senso al disordine nel quale si è ritrovato sin dalla nascita. Non avrà né i mezzi per interpretare sé stesso, né i mezzi per interpretare gli altri. Sarà un umano che non avrà ricevuto una risposta al suo appello di salvezza.
Se quindi ciò che ci rende umani capaci di essere tali è ricevere questa risposta, coloro che non la ottengono si ritrovano in uno stato di incommensurabile lontananza. Tale condizione è tipica dei soggetti autistici. Questi, non riuscendo a connettersi con l’altro e quindi a ricevere in dono un significato, resteranno esclusi dal “senso comune”. Se infatti un individuo neuro tipico risponde alla madre con un sorriso, al neonato autistico non resta che replicare con uno sguardo confuso. Escluso dal mondo simbolico attraverso il quale si muove ogni uomo, è obbligato a desumere un significato personale per poter andare avanti. Resterà obbligato a creare un proprio mondo, che più crescerà, più lo distaccherà dall’altro, fino a lasciarlo esule in una realtà parallela. Non avendo ricevuto un eco alla sua domanda di significato, nascerà un individuo condannato a sentirsi umano, intrappolato in una vita che ha molto poco di umano.
Genesi dell’ego
Noi uomini nasciamo quindi spaesati e fragili, posti forse troppo presto davanti all’immensità del tutto. Troviamo intollerabile sapere di poter essere dilaniati in qualunque momento da qualcosa di inconcepibilmente più grande di noi. Non potremmo mai sopportare tale consapevolezza da soli.
Ecco perché ci affidiamo incondizionatamente alla dolcezza di quel sorriso: il sorriso di nostra madre, la prima ragione per vivere.
Vediamo nel genitore quella pienezza di cui noi ci sentiamo privi, vediamo in questa figura la forza che noi reputiamo necessaria per agire nel mondo. Quindi gli diamo in dono quella nostra più grande mancanza: la nostra vulnerabilità, chiedendogli in cambio tutto ciò che ce li fa apparire completi.
Inizieremo quindi una ricerca di solidità attraverso l’imitazione, attraverso uno sviluppo inconsapevole, strettamente determinato dalla struttura di base della nostra mente. In un certo senso, infatti, siamo programmati per entrare in relazione con l’altro, ed emularlo. È infatti questa la funzione dei neuroni specchio: quando vediamo un nostro simile compiere una specifica azione, nel nostro cervello si attiveranno i medesimi neuroni che entrano in gioco quando noi stessi compiamo quell’azione. Abbiamo quindi un’abilità innata nel percepire ciò che ci circonda, fino ad interiorizzarlo al punto da sentirlo nostro.
Inizieremo allora ad attribuire a noi stessi gli aggettivi che vediamo espressi nel genitore, daremo alla nostra immagine la temperanza di nostro padre, o la gentilezza di nostra madre.
In aggiunta a questo processo imitativo, la totale fiducia che abbiamo dato al genitore nell’interpretazione del reale, si riproporrà anche nell’interpretazione di noi stessi. In effetti, per quanto possiamo illuderci del contrario, la nostra coscienza è parte anch’essa di quell’universo entropico dal quale rifuggiamo, e condividiamo il suo stesso disordine.
L’uomo nasce come un cumulo di sabbia, che per non venire spazzato via dal vento viene ammassato nella forma di un castello, così da potersi almeno illudere di avere la forza di ergersi contro le onde. Abbiamo non solo bisogno di creare un'immagine unitaria del reale, ma anche di noi stessi. Tale figura prenderà il nome di ego. Questo è al contempo l’ingresso dell’altro nell’individuo e il tentativo dell’individuo di entrare nel mondo: è la rassicurazione che c’è una nostra solida individualità, capace di agire nel reale e non esserne travolta.
L’inferno sono gli altri
Dunque, si potrebbe affermare che l’ego (l’immagine con la quale identifichiamo la nostra pura essenza) non ci appartenga affatto. Ironico, no? Il familiare suono del nostro nome non proviene dalle viscere della nostra anima. Il mondo che sentiamo scorrere sotto la nostra pelle, viene necessariamente dettato da ciò che non siamo. Ciò che pensiamo di noi, è frutto di ciò che ci è stato in primo luogo riconosciuto, in buona o cattiva fede. Questo significa che dal contatto con un altro maligno, può nascere solo l’inferno. È proprio questo che intendeva Sartre dicendo:
“L’inferno sono gli altri” (J.P. Sartre)
O meglio, l’inferno sono gli altri nella misura in cui l’altro in noi riconosce qualcosa di insufficiente, di inesatto o di terribilmente inadeguato. Il rapporto con un altro avvilente, porterà allo sviluppo di un’identità avvilita, al contrario, la relazione con un altro celebratore, ci consegnerà tra le mani un ego tanto grande da soffocare il nostro io.
In conclusione, l’ego sarà delizia onirica o, agghiacciante incubo del sé. Indipendentemente da ciò però, l’ego, sarà il significato che imputiamo alla nostra stessa esistenza; e quindi sarà prezioso, sarà qualcosa d’importante e, senza esso, saremmo nudi, saremmo sottili lastre di vetro, destinate a sorreggere la pesantezza del reale.
La smentita del reale
Dopo aver ereditato il nostro ego, esso per noi quindi diverrà un ancora salvifica: donerà senso e direzione all’incoerenza di tutto ciò che forma il nostro sé, facendoci sentire al sicuro al cospetto della complessità del reale. Purtroppo, questa proiezione immaginifica di noi stessi è, e, rimarrà sempre, solo una tenerissima bugia: una costellazione che porti ordine al disordine che ci abita, pur non avendo nulla di concreto, pur essendo una pretesa di significato.
Non c’è e non c’è mai stata armonia dentro di noi. Piuttosto che cedere a questa verità, ci auto-illudiamo di essere qualcosa di più: qualcosa di più forte persino dell’universo stesso, un qualcosa capace di plasmare il reale a sua somiglianza. Ma il reale resterà sempre lì, incrollabile, pronto a smentire le nostre certezze di unitarietà. E quando ciò avverrà sarà traumatico poiché rapinerà una coscienza di ciò che la rende umana. Il senso che avevamo ereditato soccombe in un cosmo che non si cura della nostra umanità, che non culla in sé neppure un barlume d’umano.
Nonostante tutto questo, non possiamo arrenderci, non possiamo permettere alla ragione di spazzare via tutto quello che credevamo di essere. E infatti, tutta la nostra vita si tradurrà in un tentativo (forse un po’ grossolano) di riconoscere nella vuotezza delle cose una prova: una conferma di unitarietà, e quindi di significato a noi stessi. E questo verrà fatto per pura necessità.
Questa nostra tendenza a ricercare una conferma avviene uno a uno, individuo a individuo, ed è un processo universale e semplicemente umano. Allo stesso tempo però, è qui che si manifesta il nostro più grande errore: scambiamo il nostro ego per ciò che più propriamente siamo, quando ironicamente, come abbiamo già detto, l’ego non ha nulla a che fare con la nostra pura essenza.
Ego come matrice di incomunicabilità
A questo punto, diviene chiaro il problema che sussiste nel nostro disperato desiderio di riconoscimento da parte dell’altro. Nei rapporti umani, non avviene un contatto tra soggettività, ma una ricerca di conferma da parte di ego che rifiutano di disilludersi.
È proprio qui il dramma: vogliamo che ci venga riconosciuto qualcosa di non nostro da parte di sipari che hanno poco a che fare con la vera essenza degli individui con i quali pretendiamo un contatto. Siamo in una radicale condizione di incomunicabilità tanto nel rapporto con noi stessi che nel rapporto con l’altro. Quando tentiamo di guardarci dentro, vediamo ciò che gli altri ci hanno detto di essere, quando parliamo con un altro, ci relazioniamo con ciò che egli è stato convinto di essere.
La parola, ciò che avevamo inteso come lo strumento per superare la solitudine in cui eravamo nati, ci ha portato in una condizione di lontananza ancora più radicale. Il mezzo che avevamo avuto in dono per afferrare
il reale, in verità, ci ha allontanato irrimediabilmente da esso.
La reazione dell’uomo davanti alla totalità è stata quindi una fuga disperata nel niente e nell’astratto. E dal nulla non nasce nulla: non possiamo aspettarci che sia il vuoto a placare la nostra sete di significanza. Davanti a questa realizzazione, davanti al fatto che abbiamo passato una vita a vagare in nient’altro se non un “Nulla condiviso”, non possiamo fare altro che disperarci.
L’umanissima lotta per il significato: tra libertà e felicità
Il marinaio è in mare. È stanco. Da molto tempo, non si bea del candore della luna sdraiato sui fili d’erba. Sulla linea del divenire, scorge l’isola in cui ha lasciato sua moglie, i suoi figli, casa sua. Lì, nessuno pensa di essere nel posto sbagliato, lì tutti vivono sereni, inseguendo la brillantezza delle costellazioni. Si avvicina alla terra, e già pregusta la tenerezza degli sguardi dei suoi cari. Manca pochissimo, e potrà dirsi a casa.
L’uomo guarda le stelle, e capisce d'essere il solo a riconoscere il volto di una vergine inciso nella notte. Tutto a un tratto ha paura: teme d’aver rincorso lo spettro di una promessa, una promessa di significato.
L’uomo guarda in mare e, s’accorge che a sinistra dell’isola, v’è un enorme vortice, che conduce dove le costellazioni cessano d’essere, lontano dal senso, sul fondo dell'abisso, dove ognuno è solo. Il marinaio trema. Perché quel sentirsi attratto dal buio più profondo lo fa inorridire, lo disgusta. Lì non sarebbe mai felice, lì sarebbe esposto ad ogni male. Lì scomparirebbero le stelle e con esse la sua direzione. Eppure crede che lì la sua mente sarebbe pervasa da un incomprensibile sentor’ di leggerezza: un non esser più vincolati a ciò che è giusto o a ciò che è sbagliato, un’esistenza libera.
E dov’è finito allora l’affetto che prova verso i suoi cari? Forse non vuole più riabbracciare sua moglie? Ovvio che no. Il desiderio d’esser felice insieme a loro è potente, ma crede che sull’isola non troverebbe mai davvero se stesso. Crede che sarebbe costretto per tutta la sua vita a indossare i panni di qualcun altro. L’uomo si sente impazzire, non sa più chi è, non sa più cosa vuole, non sa più nemmeno dove andare. Gli pare che questo sia un crudelissimo paradosso: il dover scegliere fra l’esser libero e l’esser felice. E intanto la barca va, va dritta, e più passa il tempo, più si avvicina il momento in cui dovrà decidere.
E lascia che l’aria che gli entra nei polmoni porti chiarezza nella sua mente. L’uomo non si ferma. L’uomo continua ad andare avanti, alza il capo e riapre gli occhi. È sereno.
Si rivolge alla Vergine come se fosse una carissima amica, e riconosce che quel familiarissimo volto non ha nulla di rassicurante per sé, ma questo non gli importa più. Capisce che è proprio il desumere un significato dal nulla a dar senso all’uomo. Vede la verità nella finzione stessa, e il suo cuore, fino a prima poggiato sul niente, si compiace di quella dolce lotta. La lotta per il senso.