Riccardo Carlo Tiezzi
Orizzonti Troppo Vicini
Aggiornamento: 24 lug
Abstract
Questo articolo analizza la società contemporanea e la percezione del tempo come risorsa preziosa. Descrivendo la frenesia e la produttività generalizzata, si esplora come le relazioni e le individualità siano diventate fragili e superficiali. Si esamina il ruolo dei social media nel plasmare le coscienze e si evidenziano le conseguenze del consumo e dell'immaginifico. Si mette in luce l'importanza della riflessione introspettiva e della noia come veicoli per una migliore comprensione di sé e del mondo. Infine, si sottolinea l'importanza di trovare un equilibrio tra l'attività frenetica e la ricerca di significato per abbracciare una vita più appagante e significativa.
Orizzonti troppo vicini
Quale è la risorsa più importante della nostra epoca? Sicuramente non il denaro, di quello ce n’è in abbondanza. Ciò che scarseggia è il tempo: un uomo fortunato vive ottant’anni in salute (molto poco rispetto all’eternità dell’universo) e questa brevissima parentesi di luce è fatta di attimi, pronti a dissolversi nel buio. Con l’arrivo della modernità, l’uomo ha smesso di credere nel paradiso e tutto è cambiato: una volta aver preso coscienza dell’essere nati con una data di scadenza, i nostri istanti, di colpo, hanno acquistato valore e sprecare il proprio tempo è diventato un peccato di cui vergognarsi. Nasce così la produttività generalizzata: un imperativo categorico che fa sì che l’autostima di un singolo combaci con la portata dei suoi risultati. In questo mondo, chi non può vantare grandi vittorie vale poco e, chi produce di più è migliore. Ecco perché corriamo tutti: viviamo una vita fin troppo frenetica, dove chi si ferma diventa spazzatura, un rottame da buttar via perché inutile.
Mi viene in mente un libro: Vita liquida, di Z. Bauman. In questo saggio viene descritta la cifra autentica dei nostri tempi:
“l’essere costretti ad accelerare per rimanere fermi”, scivolando su futuri scricchiolanti e incerti, precipitando in presenti iridescenti, troppo complessi per essere capiti, troppo mutevoli per trasformare azioni in abitudini.
Questa feroce frenesia ha reso tutto fragile, comprese le nostre individualità che hanno bisogno di rispecchiarsi negli occhi altrui per essere solide: non riusciamo a definirci senza il giudizio del prossimo, non riusciamo a valutare noi stessi senza un riscontro esterno e, per qualche ragione, adeguiamo il nostro essere alle aspettative altrui, come sosteneva il sociologo canadese E. Goffman. Il nostro comportamento è dettato dal contesto e dai suoi vincoli, ma se il contesto è “liquido”, anche il nostro comportamento, le nostre relazioni e la nostra individualità lo saranno. La velocità ha svuotato le relazioni: oggi non c’è tempo di attendere che un rapporto maturi e se c’è qualcosa che non funziona basta buttarla. Giusto?
Rimangono solo rapporti che nulla significano, rimbalziamo da una persona all’altra, desiderando di riconoscere un po’ di noi stessi nel prossimo, dimenticandoci che per trovare qualcosa di simile alla nostra coscienza, dovremmo prima conoscerla.
Questa spasmodica compulsività orientata al produrre, ha ucciso le nostre capacità introspettive: non parliamo più col nostro io, tanto siamo impegnati a risolvere problemi o a rispondere ai messaggi su WhatsApp. Tutti i nostri giorni sono saturi di cose da fare, abbiamo cancellato i momenti di vuoto.
E ora, dove è finita la noia? A. Schopenhauer spiegò la vita umana con una metafora:
“La vita è un pendolo che oscilla tra dolore e noia, con brevi attimi di piacere”.
Il filosofo tedesco intendeva la noia come l’inaridirsi dei desideri, come l’esaurimento della volontà, e di fatto, come la tregua dal dolore, quel momento di vuoto che ci pone davanti le nostre fragilità e ci costringe a vederci per come siamo, ad analizzarci nel profondo, a capirci. Purtroppo, vedersi senza filtri è difficile. Forse ci spaventa conoscerci, temiamo di inorridire davanti a noi stessi, come è accaduto a Rascol’nikov in Delitto e castigo. Abbiamo così deciso di allargare il più possibile quei brevi attimi di piacere, rifugiandoci nel consumismo più cieco, quello fatto di effimera contentezza che non porta a nulla. Già dai tempi di Epicuro è noto che il piacere immediato non porta a niente e a volte scarnisce l’esperienza della vita stessa. Ci siamo scordati di questo, però preferiamo vivere per la dopamina che ci regala una notifica sul nostro telefono. Sembra che il resto non conti più molto. Tutti chiusi nelle nostre piccole realtà, paradossalmente nel secolo della comunicazione rapida abbiamo perso il contatto con il mondo.
Il sociologo statunitense M. McLuhan, tramite i suoi studi, coniò il concetto di “media caldo”: un supporto tecnologico capace di saturare tutti i canali sensoriali del soggetto, impedendogli di fare ricorso alle proprie capacità di giudizio e di creatività; trasformandolo effettivamente in una “coscienza asettica”. Massimo rappresentante di questi media è Tik Tok: social pieno di inutile rumore, privo di significato, luogo in cui è un algoritmo a scegliere cosa dobbiamo vedere, esautorandoci del nostro arbitrio.
A causa dell’ascesa di questa piattaforma gran parte dei principali social (Instagram, YouTube e Facebook) ha adeguato i propri contenuti alle esigenze di mercato rendendoli veloci e vuoti.
In media, un ragazzo di 14/18 anni, consuma un enorme quantità di questi contenuti riempiendo la propria mente di ronzii annebbianti; ciò è un problema, perché in queste età le coscienze compongono il proprio sé: l’immagine di loro stesse rispetto al mondo, la propria personalità, il proprio sistema valoriale e i pilastri fondamentali della propria mente. Tutto questo nasce a partire dagli stimoli esterni che vengono interiorizzati e se, una giovane anima si espone lungamente a un enorme e indefinita marea d’insignificanza, ecco allora che fioriranno solo coscienze deboli, inermi, di fronte al divenire delle cose.
Quindi, si spendono molte ore scorrendo da un contenuto di pochi secondi all’altro, in un flusso continuo di gratificazione dopaminica che incastra le menti in rumorosi vortici di niente. Tuttavia, questo appagamento non è assolutamente felicità.
A. Camus immaginava Sisifo sorridente mentre spingeva quel pesante masso lungo il versante della montagna. Lo immaginava così perché sapeva che la felicità sta nel percorso che ci porta all'obiettivo, più che nell'obiettivo stesso o, come intendeva dire Leopardi nel “Sabato del villaggio”, l’attesa del piacere è essa stessa il piacere. Questi due autori in particolare avevano intuito che l’eccesso di comodità e immediatezza, svilisce la bellezza della vita, proprio perché essa trova il suo senso in un mondo indifferente e senza significato, solo finché si sforza di inseguire lontani traguardi. È qui che risiede il valore dell’esserci.
Sogno orizzonti fuori dalla mia portata,
da inseguire sino l’estremo delle forze mie,
solo per compiacermi del significato di quel sudore.