Leonardo Apollonio
Le AI Possono Produrre Arte?
Aggiornamento: 25 lug
Abstract
Viviamo nel momento in cui le AI stanno spopolando. Ve n’è una per ogni esigenza e, dunque, vi sono anche quelle che facilitano l’uomo in ciò che mai dovrebbe essere facile fare: creare arte. Sono numerose le AI che creano immagini, dipinti, musica, poesia. Ma questa è davvero arte? Si può apprezzare come fosse arte? Oppure è solo un mero prodotto tecnico, frutto di misera tekne che le AI hanno inserita sotto forma di codici nel loro script? Per rispondere a ciò bisogna capire cos’è l’arte, prima di tutto, e successivamente se le AI hanno tutto ciò che serve per creare arte. L’autore svolgerà dunque varie analisi, prima per definire un concetto vasto come quello di “arte”, poi per definire quello di “coscienza” ed infine per comprendere come si determina se un’AI è cosciente o meno. Attraverso studi e processi logici si arriverà dunque ad una conclusione sorprendente.
Verso un tentativo di definizione dell’arte - o se il quadrato è arte
In tanti hanno cercato di definire l’arte. In tanti hanno fallito e, forse, io sarò uno di quelli che fallirà. Wittgenstein sosteneva che l’arte non si potesse definire in quanto i prodotti artistici sono troppo vari per poter essere unificati sotto una sola definizione. Tuttavia per far luce su ciò su cui questo articolo vuole far luce è necessaria che vi sia una definizione dell’arte. Un mio collega, Francesco Paolini (conversazione personale, Aprile 28, 2023) la definì come “Una reazioni alle imperfezioni del mondo” mentre, un secondo collega, Kali, (conversazione personale, Aprile 30, 2023) anch’esso espresse una sua definizione di questo concetto scrivendo: “Esprimersi oltre il significante. Rappresentare, dire, oltre il concetto delle parole”. Tuttavia il fatto che l’arte sia un modo di esprimere un concetto, un messaggio, non è qualcosa di scontato e su cui tutti concordano. Se questo segna una prima distinzione tra le posizioni, queste due visioni dell’arte (i.e., arte come tramite per la comunicazione d’un messaggio o no) riescono entrambe a passare quella “sorta di test” che Jerrold Levinson formulò nel suo articolo Refining Art Historically (Levinson, 1989) nel quale sostiene che nel momento in cui un artista crea qualcosa senza l’intento che in un futuro ci si riferisca a quel qualcosa allo stesso modo con cui ci si riferisce alle opere d’arte passate e né ha alcun interesse verso il creare arte, allora quel qualcosa non è arte. Invero Levinson scrive:
Originale “My view does, however, entail a sort of rock-bottom test that could be expressed thus. If a would-be artmaker will not himself acknowledge having the sort of intent I posit-that is, if we ask him point blank whether his object is intended, at least initially, to be regarded in some way past art was, and he denies it, nor admits of any other intended regard that we can identify to be in the class of past art regards-and if we can see no grounds for attributing such intent on his behalf, then my account says what he is doing cannot be art” (Levinson, 1989)
Traduzione "Il mio punto di vista, tuttavia, comporta una sorta di test di fondo che potrebbe essere espresso in questo modo. Se un aspirante creatore d'arte non ammette di avere il tipo di intenzione che io propongo - cioè, se gli chiediamo a bruciapelo se il suo oggetto è destinato, almeno inizialmente, a essere considerato in qualche modo come lo era l'arte del passato, e lui lo nega, né ammette nessun'altra intenzione che possiamo identificare come appartenente alla classe di considerazioni dell'arte del passato - e se non vediamo alcun motivo per attribuirgli tale intenzione, allora il mio punto di vista dice che ciò che sta facendo non può essere arte". (Levinson, 1989)
Spesso mi è capitato di sentire o leggere qualcosa di qualcuno che usava il termine “arte” come sinonimo di perfezione estetica. Dunque qualcosa di splendido esteticamente. Qualcosa che rispetta tutte le regole di questo tipo di bellezza, come, per esempio, alcuni principi armonici e alcune giuste proporzioni. Di certo dunque una bellezza estetica strabiliante sarà arte, qualsiasi sia l’oggetto o il soggetto che è custode di questa bellezza: Si immagini, dunque, l’uomo più bello che si riesce ad immaginare. Costui è arte? Io non definirei arte qualcuno, non definirei arte una sterile bellezza fisica. Si pensi allora, siccome la bellezza fisica di un individuo ho appena detto non è considerabile arte, ad una cornice quadrata di un quadro. I lati della cornice sono di uguale lunghezza in modo preciso al millimetro, il colore è uniforme, e i lati sono dritti senza una minima curva. Questa è la bellezza estetica par excellence,non v’è nulla di più proporzionalmente perfetto ed armonicamente perfetto di un quadrato. La cornice quindi è arte. Dunque se si disegna un quadro su un foglio con la stessa precisione con cui è stata costruita la cornice si avrà un altro esempio di arte. Ma la bellezza estetica viene dalla tékne (dal gr. “tecnica”), da un rispetto delle regole rigido e da null’altro. Qualsiasi macchina è capace di creare bellezza estetica: se si usa un compasso il compasso disegna un cerchio perfetto. Sarebbe giusto dire perciò che il compasso può creare arte? Lo stesso Platone definisce l’arte come la rappresentazione di qualcosa, ma così dicendo una perfetta rappresentazione di un triangolo sarebbe considerabile arte.
Innanzitutto bisogna decidere: l’arte è soggettiva o oggettiva? Se l’arte fosse soggettiva non si potrebbe, come sosteneva Wittgenstein (sebbene per altri motivi), unificare l’arte sotto una sola definizione in quanto ciascuno avrebbe un’idea di arte diversa e ciascuna cosa, ora per qualcuno ora per qualcun altro, potrebbe essere allo stesso tempo arte e non-arte. Dunque, se l’arte fosse soggettiva, nulla potrebbe impedirmi dal sostenere che la sedia su cui in questo momento sono seduto è arte e se qualcuno mi chiedesse di motivare questa asserzione mi basterebbe dire: “Per me è così.” E nulla ci sarebbe che si potrebbe obbiettare a ciò. Allo stesso modo, se fosse soggettiva, nessuno potrebbe dire che questa sedia non è arte perché come potrebbe, in tutta coscienza, essere sicuro che su sette miliardi e novecento milioni di abitanti non ci sia nemmeno uno di questi che considera la sedia su cui sono seduto arte? Anche gli escrementi di un cane sarebbero arte nel momento in cui l’arte è soggettiva perché, di nuovo, come si può essere sicuri che su quasi otto miliardi di persone non ve ne sia una che li consideri arte? Inoltre, perché qualcosa sia arte, non serve che vi sia una maggioranza di persone a considerarla tale, bensì basta solo che qualcuno in tutto il modo (dunque che una sola persona su otto miliardi) consideri che le feci di cane siano arte per far sì che nessuno possa dire “le feci di cane non sono arte.” Perché lo sono, per qualcuno. Ma se tutto è arte allora nulla lo è. Mi spiego meglio: il concetto di arte esiste per distinguere l’arte da ciò che è non-arte, ma se tutto fosse arte allora non vi sarebbe bisogno di dire “questo è arte.” perché è qualcosa che è già dato dalla semplice esistenza della cosa. Se tutto fosse bello, che bisogno ci sarebbe di pensare il bello? Se tutto fosse brutto che bisogno ci sarebbe di pensare il brutto? Basterebbe constatare l’esistenza di qualcosa per constatare che è brutto. Allo stesso modo se tutto fossse arte basterebbe che qualcosa esista perché sia arte e dunque non vi sarebbe bisogno di questo concetto. Ora si potrebbe obbiettare che il soggettivismo che io cerco di confutare è qualcosa che non prova l’inesistenza dell’arte, giacché esso non è un giudizio assoluto, ma un giudizio unicamente del soggetto spettatore. E’ lo spettatore che dice: “per me è arte” oppure “per me non è arte; tuttavia qui si ricade in un errore comune: si scambia l’arte per la bellezza. La primaria differenza fra arte e bellezza risiede in un dato fondamentale che sintetizza molto bene una frase presente in un articolo del 2015 della rivista Philosophy Now:
Originale “The fundamental difference between art and beauty is that art is about who has produced it, whereas beauty depends on who’s looking.”(Chiara Leonardi et al., 2015)
Traduzione "La differenza fondamentale tra arte e bellezza è che l'arte riguarda chi l'ha prodotta, mentre la bellezza dipende da chi la guarda.” (Chiara Leonardi et al., 2015)
Se dunque il soggettivismo del “per me” rispetto alla bellezza può essere sostenuto, per l’arte non può; in quanto non siamo noi a scegliere se qualcosa è arte, ma l’artista stesso nel momento in cui vuole creare arte. Se d’altronde così non fosse, l’arte diverrebbe attributo alla cosa e non la cosa in sé, sarebbe, difatti, una caratteristica che lo spettatore x attribuisce nella sua soggettività alla cosa; ma l’arte è la cosa e non un attributo alla cosa. E’ dunque l’artista a decidere se creare arte o meno, adempiendo dunque al requisito di cui Levinson scrisse (vd. supra.). Ciò però non vuol dire che l’arte è soggettiva, perché altrimenti tutto, come espresso sopra, può essere arte, perché non potrò mai dire con certezza che la persona che ha fatto la sedia su cui mi siedo non l’abbia fatta decidendo che essa sia arte. Dunque l’oggettività dell’arte deve per forza di cose essere, altrimenti è l’arte a non essere.
Dunque spero di aver chiarito perché l’arte non può essere soggettiva. Una volta compreso che non può che essere oggettiva, dobbiamo dunque comprendere se oggettivamente un quadrato può essere arte e dunque se l’arte è effettivamente solo una bellezza estetica. Poniamo allora una condizione [K1]:
[K1]: L’arte è bellezza estetica.
Poniamo ora una seconda condizione derivata dalla prima [k1] e un assunto [A1]:
[K1]: L’arte è bellezza estetica.
[k1]: L’artista è colui che riesce a creare bellezza estetica
[A1]: Il prodotto dell’artista è arte
Ora facciamo finta per assurdo che il quadrato non sia una forma di bellezza estetica. Tutti coloro che posseggono l’abilità tecnica per creare una forma di bellezza estetica sono artisti in quanto tutti quanto possono, se vogliono, creare arte. Tutti dunque sono artisti giacché tutti possono produrre arte; poniamo ora una seconda condizione assurda: tutti ad un preciso momento decidono che bisogna solo creare cose esteticamente belle: tutto quello che verrebbe creato di lì in poi sarebbe arte e dunque si riverificherebbe la condizione sopra espressa in cui se tutto è arte l’arte non esiste. Ora certo non sto dicendo che se l’arte fosse bellezza estetica non esisterebbe, ma solo che se l’arte fosse bellezza estetica sarebbe qualcosa di apprendibile con la tékne e questo la renderebbe qualcosa di innanzitutto estremamente comune e di estremamente sterile e in seconda istanza sarebbe anche qualcosa che, almeno nella teoria (e non nella fantasia), potrebbe cessare di esistere nel modo più semplice di tutti. Ma, se questa dimostrazione può non soddisfare chi legge, allora forse lo soddisferà una seconda dimostrazione. Si dia dunque un secondo assunto [A2] con il quale per esempio il critico d’arte Clive Bell (Bell, 1914) e il filosofo Alexander Nehemas (Nehamas, 2007) sono d’accordo:
[A2]: La bellezza è soggettiva.
Dato dunque [A2], se l’arte è bellezza estetica, l’arte è soggettiva e dunque se l’arte è soggettiva ritorniamo di nuovo al problema della prima dimostrazione, ovvero: se l’arte fossesoggettiva tutto sarebbe arte e se tutto fosse arte l’arte cesserebbe di esistere.
Ma dunque se l’arte non è perfezione estetica schiava di mera tékne e neppure è qualcosa di soggettivo, allora cos’è? Il filosofo americano Dennis Dutton (Dutton, 2006) conclude un suo articolo realizzando quello che sembra essere un problema - nel quale infatti ricade anche quattro anni dopo Gregory Currie (Currie, 2010) -:
Originale “I had toyed with ideas presented here for years before a presentation by Julius Moravcsik at the annual meeting of the American Society for Aesthetics in 1992 finally convinced me that art as a natural phenomenon could be understood only in terms of a list of criteria.”(Dutton, 2006)
Traduzione "Ho accarezzato per anni le idee qui presentate prima che una presentazione di Julius Moravcsik alla riunione annuale dell'American Society for Aesthetics nel 1992 mi convincesse definitivamente che l'arte come fenomeno naturale può essere compresa solo in termini di un elenco di criteri". (Dutton, 2006)
E successivamente nel 2010, difatti, Currie scrive, nel tentativo di dare una definizione di arte:
Originale “(2coTK) For all co, r, k, something is art in co at r for K if it is made in K-in-co at r, and intended for regard by its maker in one of the ways that art produced in K-in-co prior to r was properly regard”[1] (Currie, 2010)
Traduzione "(2coTK) Per tutti i co, r, k, qualcosa è arte in co a r per K se è prodotto in K-in-co a r, e destinato a essere considerato dal suo creatore in uno dei modi in cui l'arte prodotta in K-in-co prima di r è stata correttamente considerata".[1] (Currie, 2010)
La definizione di Currie difatti è, proprio come aveva preannunciato Dutton nient’altro che una sterile lista di caratteristiche e criteri che qualcosa deve avere per essere considerata arte.
Ma se non si volesse ridurre l’arte ad una lista di caratteristiche a cui l’artista deve attenersi per creare arte?
Certo, perché sia data una definizione devono essere dati anche dei requisiti. Tuttavia non tutte le definizioni sono una serie di caratteristiche e limiti a cui la cosa deve attenersi per rientrare nella definizione; e, se si vuole continuare a vedere l’arte come qualcosa di libero, i limiti devono essere limitati al minimo.
Poniamo dunque che l’arte debba essere qualcosa di utile. Oscar Wilde scrisse che l’arte è futile e che l’unico modo per far sì che essa non affoghi nella sua futilità è ammirarla abbastanza da renderla utile con la nostra ammirazione.
“Possiamo perdonare a un uomo l'aver fatto una cosa utile se non l'ammira. L'unica scusa per aver fatto una cosa inutile è di ammirarla intensamente. Tutta l'arte è completamente inutile.” (Oscar Wilde, 1890)
Ma che senso ha qualcosa senza scopo, qualcosa di inutile? Alcuna. Dunque l’arte non avrebbe ragione d’essere. Anche l’arte di Wilde ha uno scopo: quella di essere ammirata. E’ certo uno scopo in sé, ma pur sempre scopo.
Dunque quale dev’essere lo scopo dell’arte? Io sostengo che uno scopo che qualcosa deve possedere non può essere qualcosa di provato. Io non posso provare che lo scopo che do all’arte sia l’unico scopo che l’arte possa avere, giacché dovrei provare che ogni opera d’arte abbia lo scopo ch’io dico, e nessuno può provarlo. Però io dico che l’arte deve avere lo scopo di comunicare qualcosa. Questo qualcosa però non deve essere un messaggio qualsiasi, altrimenti il semplice parlare ricadrebbe in questa definizione: l’arte deve comunicare qualcosa che ci aiuta a comprendere e/o ad affrontare la natura del mondo. Se la definizione di Paolini di sopra riportata era quella di una reazione alle imperfezioni del mondo, essa rientra nella mia definizione, in quanto una reazione alle imperfezioni del mondo è qualcosa che aiuta a capire il mondo e anche, in una certa misura, ad affrontarlo. In The Urgency of Art (Sam McAuliffe, 2023) Sam McAuliffe si chiede a cosa serva l’arte e la risposta che si dà non è poi così distante da quella di Paolini o dalla mia, né da quella di Kali:
Originale “The contemporary urgency of art is that it teaches us to engage with the world in vital ways many of us as forgotten, overlooked or ignored” (Sam McAuliffe, 2023)
Traduzione "L'urgenza contemporanea dell'arte è che ci insegna a impegnarci con il mondo in modi vitali che molti di noi hanno dimenticato, trascurato o ignorato". (Sam McAuliffe, 2023)
Dunque l’arte deve, prima di essere bella esteticamente, comunicare qualcosa di necessario a l’essenza umana per affrontare il mondo in cui l’artista si trova e dunque, in un certo qual modo, adempiere a l’ultimo filtro dei tre di cui Socrates (e non Socrate), uno dei personaggi del libro The Way of the Peaceful Warriors di Dan Millman, disse:
“Nell'antica Grecia Socrate aveva una grande reputazione di saggezza. Un giorno venne qualcuno a trovare il grande filosofo, e gli disse: - Sai cosa ho appena sentito sul tuo amico? - Un momento - rispose Socrate. - Prima che me lo racconti, vorrei farti un test, quello dei tre setacci. - I tre setacci? - Sì. - continuò Socrate. - Prima di raccontare ogni cosa sugli altri, è bene prendere il tempo di filtrare ciò che si vorrebbe dire. Lo chiamo il test dei tre setacci. Il primo setaccio è la verità. Hai verificato se quello che mi dirai è vero? - No... ne ho solo sentito parlare... - Molto bene. Quindi non sai se è la verità. Continuiamo col secondo setaccio, quello della bontà. Quello che vuoi dirmi sul mio amico, è qualcosa di buono? - Ah no, al contrario! - Dunque, - continuò Socrate, - vuoi raccontarmi brutte cose su di lui e non sei nemmeno certo che siano vere. Forse puoi ancora passare il test, rimane il terzo setaccio, quello dell'utilità. E' utile che io sappia cosa mi avrebbe fatto questo amico? - No, davvero. - Allora, - concluse Socrate, - quello che volevi raccontarmi non è né vero, né buono, né utile; perché volevi dirmelo?” (Millman, 2006)
Dunque, l’arte deve essere utile. Ma utile in che modo? Come detto sopra, comunicando qualcosa sul mondo e/o su come affrontarlo; “mondo”, tuttavia, inteso nel senso più ampio, ovvero come complesso di ogni cosa che è in esso. Certo, si potrebbe obbiettare che già la scienza in un certo qual modo spieghi il mondo. Sì, ma la scienza, come spiega nuovamente Sam McAuliffe, è solo una spiegazione sterile. L’arte ha il compito che null’altro ha di spiegare il mondo attraverso le emozioni. Se un’opera d’arte spiega il mondo, ma non fa provare nulla a chi si rende partecipe dell’opera, non è arte; allo stesso modo, se chi sperimenta l’opera prova qualcosa senza apprendere nulla sul mondo (e dunque anche su di sé) non è arte. L’arte deve mandare un messaggio e, come dice Kali, lo deve fare al di à delle parole e dei concetti ancorati ad essa, ma muovendo quelle cose ineffabili che sono i sentimenti. Dire che l’arte deve spiegare il mondo non basta, perché quello lo fanno già molte cose, tutte in modo diverso e con risposte diverse, ma lo fanno: religione, scienza, filosofia ecc. D’altra parte non può nemmeno solo muovere i sentimenti, altrimenti qualsiasi cosa che accade che muove il sentimento è arte. Il compito dell’arte risiede nell’umano più naturale: le emozioni. L’arte, perché sia arte, deve dunque muovere l’uomo tramite le emozioni e i sentimenti (ma senza banalità) e tramite essi spiegare ciò che il resto delle cose non riesce a spiegare, il che non vuol dire per forza spiegare cose nuove, ma anche spiegarne di già indagate ma in modo diverso. La bellezza estetica con l’arte c’entra in modo estremamente relativo e superficiale.
E dunque qual è la mia definizione di arte:
Arte è ciò che muovendo il sentimento dell’uomo riesce a far comprendere ad esso nuove cose sul mondo.
E, sebbene ciò non possa essere dimostrato scientificamente, credo che possa essere perlomeno logicamente dimostrato senza prove dicendo che nulla può fare ciò che non sia arte e nulla può fare l’arte che non sia ciò (perché se facesse altro farebbe qualcosa di cui si occupa già qualcos’altro).
Dunque l’artista per fare arte deve essere conscio di star facendo arte e deve essere conscio di essere artista giacché per mandare un messaggio attraverso qualcosa bisogna che si sia coscienti di cosa e di come lo si sta comunicando e quindi questa mia tesi si rifà in gran parte a quel test che Levinson scrisse tempo fa.
Il processo di formazione di coscienza: Il volere con il fenomeno del “noi”; da Brentano, attraverso Wittgenstein e Mikhailov al cogito cartesiano
Per fare arte, come sopra detto, bisogna esser consci di star facendo arte e dunque del nostro essere artisti e perciò del nostro essere uomini pensanti. Ma come si crea la forma più primitiva di coscienza?
Per spiegare ciò bisogna prima comprendere qual è il significato del termine coscienza. Come la Britannica (Rey, 2023) e molti articoli riferiscono, il significato di questo termine è estremamente ampio, infatti la Britannica stessa non riporta alcuna effettiva definizione del termine. Tuttavia v’è un articolo di uno psichiatra e psicoterapista indiano che nel suo artico “Towards an integrative theory of consciousness: Part 1 (Neurobiological and cognitive models)” riporta tre usi del termine:
Originale “Psychological and philosophical literature confounds three distinct senses in which a process may be said to be conscious. It may be conscious: a. In the sense that one is conscious of the process b. In the sense that the operation of the process is accompanied by consciousness c. In the sense that consciousness enters into or causally influences the process (Mudrik et al., 2011).” (De Sousa, 2013)
Traduzione "La letteratura psicologica e filosofica confonde tre sensi distinti in cui un processo può essere detto consapevole. Può essere cosciente: a. nel senso che si è consapevoli del processo b. nel senso che il funzionamento del processo è accompagnato dalla coscienza c. Nel senso che la coscienza entra o influenza causalmente il processo (Mudrik et al., 2011)." (De Sousa, 2013)
In questo articolo l’uso del termine “coscienza” sarà quello nel senso (b) dei tre citati nell’articolo di De Sousa. Difatti, per essere più chiari, darò una definizione del termine coscienza specificamente per il presente articolo: L’operazione di comprendere cosa siamo e cosa facciamo, a differenti gradi di profondità di auto-analisi (i.e., noi come “corpo”, noi come “essere che vive”, noi come “semplice fenomeno”, noi come “essere pensante”, ecc.).
La coscienza origina da vari fattori; tuttavia, il più primitivo esempio di coscienza si origina dal nostro stesso meccanismo di come percepiamo il mondo fenomenico. Come sosteneva Hegel noi sperimentiamo il mondo ragionandolo attraverso il concetto di “opposti”. Quando, nella nostra mente c’è il concetto di noi che siamo, appunto, “noi” e non “altro da noi” (appunto questa è una relazione di due opposti)? Accade per prima cosa quando noi sperimentiamo il mondo fisico; sperimentare il mondo fisico ci fornisce il concetto di fenomeno, e, quando comprendiamo che un fenomeno differisce da un altro fenomeno in quanto il loro stato fisico finisce (i.e., la materia ha dei confini), si forma nella nostra mente il concetto di “qualcosa” e “altro-da-qualcosa”. Nel momento in cui distinguiamo qualcosa da “altro-da-qualcosa” noi possiamo anche distinguere noi, fisicamente, da “altro-da-noi”. Lo stato fisico di noi stessi è il primo segno di “noi” che noi possediamo ed è originando da ciò che noi formiamo la nozione di “Noi”, semplicemente opponendola a “Altro-da-noi” (che da qui in poi chiameremo “qualcosa”). Difatti, in questo momento noi interiorizziamo e razionalizziamo la nozione di questa differenza creando, così, la coscienza che risiede in una dimensione più interiore del sé che, come Brentano sostiene, si forma con la nozione di “This very experience” (proprio questa esperienza). Tuttavia, se esiste il fenomeno empiricamente, ciò non implica che il fenomeno esista materialmente, come, appunto, il filosofo russo Igor. F. Mikhailov scrive in un suo articolo del RUDN Journal of Philosophy:
Originale “From my point of view, one of the main faults of phenomenology is the failure to distinguish the empirical from the experiential. The former refers mainly to semantics and justification, while the latter to the psychology of perception. For me, the proposition ‘Amazon Delta is situated in the Brazilian states of Pará and Amapá’ is an empirical one, although I never experienced the sight myself phenomenologically.” (Mikhailov, 2022)
Traduzione "Dal mio punto di vista, uno dei principali difetti della fenomenologia è l'incapacità di distinguere l'empirico dall'esperienziale. Il primo si riferisce principalmente alla semantica e alla giustificazione, mentre il secondo alla psicologia della percezione. Per me, la proposizione 'Il Delta dell'Amazzonia si trova negli stati brasiliani di Pará e Amapá' è empirica, anche se non ho mai sperimentato la vista dal punto di vista fenomenologico". (Mikhailov, 2022)
Infatti la nozione di “qualcosa” (nel significato di “altro-da-noi”) si forma ed è compresa solo se noi colleghiamo lo stato fisico, quindi l’esperienza materiale, con la nozione empirica che quest’ultimo è un limite. Forse questa affermazione è più chiara se si intende il termine “empirico” nel senso di una nozione mentale derivante dall’esperienza, che sia essa diretta o indiretta (i.e. qualcuno mi ha detto “qualcosa” o ho sperimentato direttamente quel qualcosa). Franz Brentano scrisse qualcosa che è estremamente simile a quello che si sta asserendo ora nel suo lavoro più celebre, Psychology from an Empirical Standpoint:
Originale “It is only by considering it in its relation to two different objects, one of which is a physical phenomenon and the other a mental phenomenon, that we divide it conceptually into two presentations. In the same mental phenomenon in which the sound is present to our minds we simultaneously apprehend the mental phenomenon itself. What is more, we apprehend it in accordance with its dual nature insofar as it has the sound as content within it, and insofar as it has itself as content at the same time.”(Franz Brentano, 2009)
Traduzione "Solo considerandolo in relazione a due oggetti diversi, uno dei quali è un fenomeno fisico e l'altro un fenomeno mentale, lo dividiamo concettualmente in due presentazioni. Nello stesso fenomeno mentale in cui il suono è presente alla nostra mente, percepiamo contemporaneamente il fenomeno mentale stesso. Inoltre, lo percepiamo secondo la sua duplice natura, nella misura in cui ha il suono come contenuto al suo interno, e nella misura in cui ha se stesso come contenuto allo stesso tempo" (Franz Brentano, 2009)
In questa concezione del termine il nostro stato fisico è anche un riconoscimento di una differenza fondamentale fra “noi” e “qualcosa”: “noi” è controllato dal nostro volere, un concetto che non possediamo ancora ma che sperimentiamo nell’atto di fare un’azione (e.g. muovere un bicchiere), mentre “qualcosa” non lo è. Noi sperimentiamo, invero, questa differenza nell’esatto momento nel quale noi facciamo un’azione usando “noi” rivolto ad un oggetto: realizziamo che l’oggetto non è soggetto al nostro volere, e realizziamo questo quando noi, astenendoci dal fare qualsiasi cosa, cerchiamo di imporre il nostro volere ad un oggetto (e.g. proviamo a muovere un bicchiere senza interagire con esso in alcun modo): noi capiamo che solo il nostro corpo può essere mosso unicamente dal nostro volere. Perciò, per esempio, comprendiamo che possiamo prendere un bicchiere e alzarlo in aria, ma se lo lasciamo cadere non possiamo impedire che si rompa. Questa differenza nell’area di dominio del nostro volere è il primo segno di una forma primitiva di coscienza che si crea in noi. La concezione di volere è originata in noi nella forma più primitiva dal momento in cui noi agiamo su un oggetto e cerchiamo di imporre su di esso il nostro volere, tuttavia questa imposizione è ancora inconscia; la vera consapevolezza primitiva del nostro volere si crea con il ripetere quest’azione. Noi incominciamo a comprendere cosa vuole davvero dire “volere” quando ci chiediamo: perché lo faccio? Nel porci questa domanda noi ammettiamo che siamo capaci di scegliere le nostre azioni: in quel momento v’è l’origine della comprensione del concetto di “volere”. Come scrisse Wittgenstein:
Originale “Why do people think? Why do they calculate the thickness of walls of a boiler and do not let the chance determine it? Can a calculated boiler never explode? Of course, it can. We think about actions before we perform them. We make representations of them, but why? We expect and act according the expectancy; […] Expectancy [is] a preparatory action. It outstretches its arms like a ball player, directs its hands to catch the ball. And the expectancy of a ball player is just that he prepares arms and hands and looks at the ball.” (Wittgenstein & Rhees, 1991)
Traduzione "Perché la gente pensa? Perché si calcola lo spessore delle pareti di una caldaia e non si lascia che sia il caso a determinarlo? Una caldaia calcolata non può mai esplodere? Certo che può. Pensiamo alle azioni prima di compierle. Le rappresentiamo, ma perché? Ci aspettiamo e agiamo in base all'aspettativa; [...] l'aspettativa [è] un'azione preparatoria. Si stendono le braccia come un giocatore di palla, si dirigono le mani per prendere la palla. E l'aspettativa di un giocatore di palla è proprio quella di preparare braccia e mani e di guardare la palla". (Wittgenstein & Rhees, 1991)
Nel porci questa domanda stiamo accettando l’idea che le nostre azioni sia causa di qualche conseguenza, e oltre: perché ciò sia volere implica l’avere uno scopo, e quindi noi integriamo in noi stessi l’idea, non solo della relazione causa-conseguenza, ma anche la relazione di azione-scopo (o, per essere più precisi, scopo-azione). Infatti, noi stiamo riconoscendo che tutte le nostre azioni, non sono solo una causa di una conseguenza di qualsiasi tipo, ma anche che sono originate da uno scopo.
Dunque, stiamo pensando a noi come: una dimensione fisica del “noi” separata da “qualcosa”, sia in modo fisico sia in modo empirico (quest’ultimo inteso come è sopra spiegato) con la capacità di eseguire azioni su un oggetto decise dal nostro volere che è dotato di uno scopo e che causerà conseguenze sull’oggetto. Perciò, noi siamo consci del nostro essere un essere vivente con volere, ma non ancora un umano pensante. Questa è la più primitiva sensazione di una coscienza.
In questo processo si formano nel “sé” due delle tre parti di cui Mikhailov ha scritto nel suo articolo:
Originale “[I] intelligence, [C] control, including the ability to account (awareness), or [Q] qualia, a.k.a. ‘phenomenal consciousness’” (Mikhailov, 2022)
Traduzione "I] intelligenza, [C] controllo, compresa la capacità di rendere conto (consapevolezza), o [Q] qualia, ovvero 'coscienza fenomenica'" (Mikhailov, 2022)
Difatti [C] e [Q] sono così definiti nel processo di formazione di coscienza.
Tuttavia Mikhailov include l’intelligenza come una delle tre parti della coscienza, io, dal mio punto di vista, preferirei invece mantenere solamente le ultime due ([C] e [Q]) nella definizione di coscienza, in quanto l’intelligenza non è una caratteristica, né un prodotto di essa, ma piuttosto un attributo dell’individuo. La coscienza, non come una caratteristica morale o come una qualità del sé, bensì come la nozione di essere un unico individuo che esiste per se stesso, non richiede di avere un’intelligenza ma solo le capacità[2] di pensiero più elementari che servono a sintetizzare il concetto di “noi” come sopra citato (vd. supra.: “una dimensione fisica del “noi” separata da “qualcosa”, sia in modo fisico sia in modo empirico con la capacità di eseguire azioni su un oggetto decise dal nostro volere che è dotato di uno scopo e che causerà conseguenze sull’oggetto.”). Se noi pensiamo alla coscienza come alla nostra intelligenza noi non possiamo escludere da essa la capacità di giudicare se un individuo è intelligente o meno e tutte le altre caratteristiche giudicabili e, più o meno, soggettive. Dunque, quest’ultimo tipo di coscienza è più una coscienza estetica, una coscienza del giudizio che del riconoscimento, una coscienza del sé profondo che può giudicare le proprie capacità come anche il mondo attorno all’individuo. Certamente, perché un oggetto o un individuo sia giudicato deve essere riconosciuto da una coscienza del giudicatore, sia che sia allo stesso tempo l’oggetto giudicato e il soggetto giudicante (dunque che l’azione sia riflessiva) sia che sia solamente l’ultimo dei due (dunque che l’azione sia attiva). Per giudicare la nostra stessa intelligenza, come anche per giudicare l’intelligenza di un oggetto, dobbiamo essere coscienti di noi come sopra espresso e allo stesso tempo dobbiamo riconoscere l’oggetto del nostro giudizio (che esso sia un oggetto o che sia noi stessi) come un oggetto pensante. Per riconoscere noi stessi come qualcosa che può pensare noi dobbiamo sperimentare il pensiero e il primo segno di pensiero che noi percepiamo è il volere. Quindi, proprio a causa di questa consequenzialità, la coscienza di noi stessi come un fisico stato del noi con un concetto di volere non ci richiede di essere coscienti della nostra intelligenza, dal momento che la coscienza della nostra intelligenza viene successivamente al volere.
Inoltre, se è vero che la coscienza di sé non implica la coscienza del fattore [I] di Mikhailov, è anche vero che, come il filosofo russo ha asserito, il cogito cartesiano “può essere soggetto a ragionevoli sospetti filosofici”:
Originale “At the heart of the Cartesian cogito, which is mistakenly considered by some a starting point of the New Age philosophy of mind, lies the following logical move: my doubt in whatever existence is the guarantee of my own being there. However, this conclusion can be justified only if the following — mainly tacit — presuppositions are true. Assumption 1: My consciousness is given to me as a thing-in-itself (my perception of my inner life cannot be false). Assumption 2: Thinking (doubt) can only be a conscious act, and my account of my thought acts is necessarily reliable (unconscious distortions, biases, and attitudes are ignored). Each of them can be the subject of reasonable philosophical suspicions.” (Mikhailov, 2022)
Traduzione "Al centro del cogito cartesiano, che alcuni considerano erroneamente un punto di partenza della filosofia della mente New Age, si trova la seguente mossa logica: il mio dubbio in qualsiasi esistenza è la garanzia del mio stesso esserci. Tuttavia, questa conclusione può essere giustificata solo se sono veri i seguenti presupposti, per lo più taciti. Presupposto 1: la mia coscienza mi è data come cosa in sé (la mia percezione della mia vita interiore non può essere falsa). Presupposto 2: il pensiero (il dubbio) può essere solo un atto cosciente e il mio resoconto degli atti di pensiero è necessariamente affidabile (le distorsioni, i pregiudizi e gli atteggiamenti inconsci sono ignorati). Ognuno di essi può essere oggetto di ragionevoli sospetti filosofici". (Mikhailov, 2022)
Lasciando stare i due assunti che Mikhailov ha posto analizzando il cogito cartesiano, io credo che il problema del cogito giaccia nella consequenzialità delle azioni. Il cogito cartesiano è la prova dell’esistenza e dunque la prova della mia esistenza. Infatti questo processo logico che ha fondato l’età moderna della filosofia si basa nel processo di dubitazione. Tuttavia io concordo con Jennifer Church sui mezzi che l’individuo deve possedere per dubitare:
Originale “To have doubt, however, one must be capable of questioning the correlation between some representation of the world and the world itself (is the coffee as hot as it seems? is it the neighbor or someone else that is making the noise?); one must recognize the possibility of different attitudes towards the same content, and hence the existence of a thinker. Doubt not only requires a doubter, as judgment requires a judger, but, unlike judgment, it requires some self-consciousness on the part of the doubter.” (Church, 1990)
Traduzione “Per avere un dubbio, tuttavia, bisogna essere in grado di mettere in discussione la correlazione tra una rappresentazione del mondo e il mondo stesso (il caffè è caldo come sembra? è il vicino o qualcun altro a fare rumore?); bisogna riconoscere la possibilità di atteggiamenti diversi verso lo stesso contenuto, e quindi l'esistenza di un pensatore. Il dubbio non solo richiede un dubitatore, come il giudizio richiede un giudicante, ma, a differenza del giudizio, richiede una certa autocoscienza da parte del dubitatore.” (Church, 1990)
Descartes pensava che per essere sicuro della propria esistenza dovesse dubitare di tutto, ma per dubitare di tutto lui doveva dubitare anche della sua stessa coscienza di sé, tuttavia, come Church scrive, per dubitare, e dunque anche per dubitare della propria coscienza, il dubitatore deve avere coscienza di sé e quindi non può dubitare di tutto. Per dubitare deve prima essere cosciente, ma per essere cosciente deve sperimentare lo stato fisico dei fenomeni. Dunque, la res extensa è già provata nel processo stesso del cogito, perché per essere certi de proprio cogito bisogna dubitare, ma per dubitare bisogna essere coscienti di sé e per essere coscienti di sé bisogna essere una res extensa, un fenomeno in relazione con altri fenomeni. In conclusione, l’errore nella consequenzialità di Descartes era quello di anteporre la certezza della res cogitans alla certezza della res extensa, senza la quale lui non avrebbe mai potuto provare la prima.
Test di Alan Turing, John Searle e Noam Chomsky – o se io parlo cinese
“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi”. “Voi umani”, questo è ciò che dice il replicante Roy Batty nel film Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Ma quel replicante era vivo, era cosciente, persino della morte e della caducità dell’esistenza:
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,come lacrime nella pioggia. È tempo di morire»
Ma cosa rende una macchina cosciente? Cos’è che ci fa distinguere una macchina cosciente, umana quasi, dal computer su cui scrivo che ragione con un semplice sistema di input e output? Una delle più grandi risposte a questa domanda si trova nel celebre articolo Computing Machinery and Intelligence (Turing, 1950) di Alan Turing usando quello che Turing chiama the imitation game (il gioco dell’imitazione):
Originale “The new form of the problem can be described in terms of a game which we call the 'imitation game'. It is played with three people, a man (A), a woman (B), and an interrogator (C) who may be of either sex. The interrogator stays in a room apart from the other two. The object of the game for the interrogator is to determine which of the other two is the man and which is the woman. He knows them by labels X and Y, and at the end of the game he says either ' X is A and Y is B ' or ' X is B and Y is A'. The interrogator is allowed to put questions to A and B. […] We now ask the question, 'What will happen when a machine takes the part of A in this game? ' Will the interrogator decide wrongly as often when the game is played like this as he does when the game is played between a man and a woman These questions replace our original, 'Can machines think?” (Turing, 1950)
Traduzione "La nuova forma del problema può essere descritta in termini di un gioco che chiamiamo 'gioco dell'imitazione'. Si gioca con tre persone, un uomo (A), una donna (B) e un interrogatore (C) che può essere di entrambi i sessi. L'interrogatore rimane in una stanza separata dagli altri due. Lo scopo del gioco per l'interrogatore è determinare quale degli altri due è l'uomo e quale la donna. Li conosce con le etichette X e Y e alla fine del gioco dice "X è A e Y è B" oppure "X è B e Y è A". All'interrogatore è consentito porre domande ad A e B. [...] Ora poniamo la domanda: "Cosa succederà quando una macchina prenderà il ruolo di A in questo gioco? L'interrogante deciderà in modo sbagliato con la stessa frequenza con cui lo fa quando il gioco è giocato tra un uomo e una donna Queste domande sostituiscono la nostra domanda originale: "Le macchine possono pensare?" (Turing, 1950)
Dunque il test di Turing potrebbe essere sintetizzato sotto questa frase: se un interrogatore C non riesce a distinguere quale tra due interlocutori A e B sia la macchina allora la macchina è senziente perché non è distinguibile da un uomo. Prendiamo, allora, per verificare se una delle correnti AI sia senziente, un dialogo classico con Chat-GPT che ho intrattenuto poco fa:
“GUEST: Salve, sono Leonardo. Sto scrivendo un articolo sulle intelligenze artificiali. Puoi aiutarmi? AI: Certo, Leonardo! Sono a tua disposizione per aiutarti a scrivere il tuo articolo sulle intelligenze artificiali. Di cosa hai bisogno? GUEST: Dovrei intrattenere una normale conversazione con te. AI: Mi piacerebbe molto intrattenere una conversazione con te, Leonardo! Di cosa ti piacerebbe parlare? Potremmo parlare di intelligenza artificiale, naturalmente, ma anche di qualsiasi altro argomento che ti interessi. GUEST: Che ne dici di parlare di cinema? AI: Mi piace molto parlare di cinema, Leonardo! Qual è il tuo genere preferito? GUEST: E' una domanda difficile. Non saprei risponderti. Tu come valuteresti il cinema di Bergman? AI: Ingmar Bergman è un regista molto famoso e rispettato. Il suo stile di regia è noto per essere molto intenso e riflessivo, con una grande attenzione alla psicologia dei personaggi. Molti dei suoi film sono considerati dei capolavori del cinema svedese e mondiale. Personalmente, trovo che il cinema di Bergman sia molto impegnativo ma allo stesso tempo molto interessante e coinvolgente.”
(conversazione persone del 21/05/2023 con Chat-GPT, https://www.chatgptdownload.org/chatgpt/)
Possiamo credo affermare che sembra essere per lo meno quasi umana, se non lo sembra del tutto. Basta analizzarne i modi: tralasciando per un secondo una eccessiva ripetizione dell’espressione vocativa “Leonardo” e delle ripetizioni delle stesse richieste nella risposta (e.g.; D: “devo scrivere un articolo” R: “sono a tua disposizione per aiutarti a scrive l’articolo”) che un umano ordinario eviterebbe per un innato principio di economia (e.g.; D: “mi servirebbe aiuto con un articolo” R: “sono a tua disposizione”), questa AI è di certo simile ad un essere umano considerando anche le domande spontanee (e.g.; “di cosa ti piacerebbe parlare?”, “qual è il tuo genere preferito?”) e il parere “personale” – se così si può chiamare – che ha dato alla fine della critica a Bergman: “Personalmente, trovo che il cinema di Bergman sia molto impegnativo ma allo stesso tempo molto interessante e coinvolgente.”
Dunque, se effettivamente, è da considerarsi quasi indistinguibile da un umano (certo non totalmente date le imprecisioni sopra citate) credo si possa tranquillamente dire che è altrettanto quasi cosciente.
Ma facciamo invece una sorta test di Turing inverso, in cui non è l’AI ha recitare la parte dell’uomo ma viceversa: si mette un individuo C all’interno di una stanza con due cassette della posta, in quella a sinistra [S] vengono inseriti dei biglietti dall’esterno e in quella a destra [D] vengono messi dei biglietti da C diretti alla stanza adiacente. Il compito di C è comunicare con una persona B nella stanza adiacente, dunque attraverso [D], parlando cinese, senza tuttavia conoscere una sola parola di cinese. Come fare? Semplice, un individuo A infila delle istruzioni comprensibili a C in [S], su queste istruzioni v’è scritto cosa scrivere per rispondere ad una determinata frase cinese. Dunque quando B chiede a C qualcosa in cinese, tutto quello che C deve fare è eseguire le istruzioni scritte sul bigliettino che A gli ha dato. In questo modo C e B comunicano in perfetto cinese, senza neppure che B si accorga che C non ha la minima idea di cosa stia dicendo.
Questo test non è mio, bensì risale ad un articolo del filosofo statunitense ampiamente citato: Minds, Brains, and Programs su Behavioral and brain sciences nel 1980. Qui lui cercava di dimostrare perché la macchina postulata da Roger Schank non era in grado di pensare. Bisogna notare che Chat-GPT funziona esattamente come la macchina di Schank, analizza un enorme vastità di dati per rispondere alle domande di un individuo nel modo più simile a come farebbe un uomo (esattamente come la macchina di Schank). Alla fine della spiegazione di ciò che ora è comunemente noto come the chinese room argument Searle finisce con una affermazione che secondo me pone un enorme punto di svolta:
Originale “As far as the Chinese is concerned, I simply behave like a computer; I perform computational operations on formally specified elements. For the purposes of the Chinese, I am simply an instantiation of the computer program.” (Searle, 1980)
Traduzione "Per quanto riguarda il cinese, mi comporto semplicemente come un computer; eseguo operazioni di calcolo su elementi formalmente specificati. Per il cinese, sono semplicemente un'istanziazione del programma del computer" (Searle, 1980)
Il test di Searle tuttavia è stato criticato da Michael DeBellis in un articolo su Philosophy Now dal titolo Arguing With the Chinese Room (DeBellis, 2023) in cui l’autore sostiene che il test di Searle sia inapplicabile in quanto richiederebbe troppo tempo per essere eseguito e il tempo è uno dei fattori fondamentali del test di Turing. Tuttavia DeBellis sembra essere caduto in un errore alquanto ingenuo: seppure non è possibile per un uomo eseguire comandi della complessità di Chat-GPT in trenta secondi, per un programma come questo è invece non solo possibile ma attualmente realizzato. Successivamente DeBellis sostiene che Searle abbia solo provato che una macchina può passare il test di Turing senza comprendere il linguaggio umano e non che tutte le macchine che passano il test di Turing non comprendono il linguaggio umano. Tuttavia quello che DeBellis sta sostenendo assurdamente è che il fatto che Searle abbia provato che il test di Turing può fallire non vuol dire che esso non è valido. Tuttavia se il test di Turing serve a dimostrare se una macchina è senziente o no e se una macchina può passarlo senza essere senziente, come Searle dimostra, il test di Turing si dimostra inutile. Insomma, DeBellis ha, nel tentativo di sminuire la chinese room, evidenziato come essa confuti il test di Turing. Quello che Searle ha fatto, e che DeBellis ha confermato senza volerlo nel suo articolo, è che il test di Turing non prova l’intelligenza di una macchina e non ne prova la coscienza. Tutt’al più se si pensa a ciò che Noam Chomsky in Syntactic Structures (Chomsky, 2002) fa un esempio di una frase che può essere interpretata in vari modi, in quanto grammaticalmente ambigua: “I saw a man on a hill with a telescope” (trad. “Ho visto un uomo su una collina con un telescopio). Chi è che ha il telescopio? Sono io che ho visto l’uomo per mezzo del telescopio (dunque quel “con” sarebbe complemento di mezzo)? Oppure è l’uomo sulla collina che io ho visto che ha il telescopio (dunque quel “con” sarebbe complemento di unione)? E’ solo dal contesto successivo che si capirà che ha il telescopio. Per esempio: ho visto un uomo sulla collina con un telescopio, ma il riflesso della lente mi ha impedito di vedere chiaramente. La frase è la stessa, ma da ciò che viene detto dopo è chiaro che il telescopio lo ho io. Difatti, se lo si chiede a Chat-GPT questo sarà l’esito:
“GUEST: ho visto un uomo sulla collina con un telescopio. Chi ha il telescopio? AI: Non ho abbastanza informazioni per rispondere alla tua domanda, Leonardo. Potrebbero essere molte le persone che possiedono un telescopio e che potrebbero essere sulla collina in quel momento. Tuttavia, se hai altre informazioni, potrei aiutarti a capire meglio la situazione.”
(conversazione personale del 21/05/2023 con Chat-GPT, https://www.chatgptdownload.org/chatgpt/)
Per comprendere chi ha il telescopio serve che si faccia riferimento a qualcosa di successivo e dunque serve che si comprenda il contesto. Ora questo potrebbe confutare in parte Searle e confermare in parte Turing, in quanto questo proverebbe che la macchina ha compreso il contesto e non ha solo risposto automaticamente. Tuttavia qui entra in gioco quella che si chiama variabile e che è conservata nella memoria della macchina. Se io do istruzioni alla macchina su come comportarsi anche in questa situazione la macchina si comporterà come un uomo anche nel rispondere a questa frase senza aver capito il contesto. Questa ambiguità è conosciuta in linguistica come il problema dell’anafora, quindi se si dà al programma la definizione del problema di anafora e la soluzione al problema la macchina lo risolverà sembrando un essere umano senziente.
Una soluzione tra Searle e Turing: un nuovo test per capire se una macchina pensa
Quali sono dunque i requisiti richiesti ad una macchina per creare arte? Emozioni, in quanto per smuoverle serve comprenderle e ancor di più provarle, e infine serve coscienza, serve coscienza di essere uomini pensanti che non solo provano emozioni ma che abitano il mondo. Serve la coscienza necessaria per mandare un messaggio e riuscirlo a mandare attraverso dei mezzi (i.e.; le emozioni).
Ma le macchine sono dunque coscienti? E se sì, come possiamo saperlo?
Il test di Searle confuta Turing, ma tuttavia Chomsky ha piantato il seme per mettere qualche bastone fra le ruote al test della chinese room. Come fare dunque a capire se una macchina è senziente o meno? Una macchina pensa nel momento in cui comprende. Questa era la base del test di Turing, la macchina è senziente perché se parla come un uomo pensa come un uomo, comprende le domande e risponde sulla base della propria comprensione. Come capire se una macchina pensa dunque? Con un test di Turing 2.0. Una chinese room creata ad hoc per capire se la macchina pensa:
Riprendiamo l’esempio fatto sopra (vd. supra.: Test di Alan Turing, John Searle e Noam Chomsky – o se io parlo cinese): C deve comunicare con B attraverso le istruzioni scritte da A. Ma poniamo una condizione a B di cui C non sa: B porrà domande per cui le soluzioni le ha in parte. In questo modo a C non basterà seguire le istruzioni, ma dovrà applicarle con un po’ di comprensione del contesto. Caliamo ora questo test idealistico nella pratica. Si programmi un AI allo stesso modo in cui si è programmata Chat-GPT solo che non si di danno le soluzioni a problemi come il problema dell’anafora. Il test di Turing ora non sta nel cercare di capire qual è l’uomo e quale la macchina, giacché l’interlocutore sa che la macchina è sola, bensì sta nel cercar di capire se la macchina comprende. L’interlocutore dapprima pone domande ambigue:
D: Ho visto sulla collina un uomo con un telescopio. Chi si trova sulla collina? Risposta D: Chi ha il telescopio? Risposta
E così avanti con stratagemmi linguistici. In questo momento la macchina non saprà come rispondere a nessuna delle domande, giacché neppure un uomo saprebbe rispondere, difatti la domanda è appunto ambigua. Successivamente l’interlocutore fornirà dei dati di contesto che daranno, in caso di comprensione di quest’ultimi, la soluzione alla domanda:
D: Ho visto sulla collina un uomo con un telescopio. Ma l’altezza della collina e l’angolazione del telescopio non mi permettevano di vedere bene. Chi si trova sulla collina? Risposta D: Chi ha il telescopio? Risposta
Se l’AI saprà rispondere in modo corretto alla domanda, senza che sia stata programmata per rispondere in modo particolare a simili domande per cui il contento è necessario, ciò vorrà dire che ha compreso il contesto e che, non solo, lo ha rapportato alla frase precedente avendo dunque coscienza del discorso che si sta facendo e avendo interpretato i dati, in quanto essi non erano posti in modo esplicito (non si dice mai chi ha il telescopio, né chi si trova sulla collina, ma lo si capisce dal contesto). In questo modo l’AI sarà perlomeno pensante.
Ovviamente tutto questo funziona solo con una fondamentale condizione di base sopradetta, ovvero che la macchina non sia programmata per trovarsi di fronte a domande come questa, altrimenti questo test sarebbe di nuovo confutato dal testo della chinese room.
Questo, però, vuol dire che la macchina è cosciente? No. La macchina non è cosciente, non necessariamente, il test non lo prova. L’unica cosa che è provata dal test è la capacità di comprensione e di pensiero. Questo test risponde alla domanda che l’articolo di Turing in prima istanza si era posto:
Originale “I propose to consider the question, 'Can machines think?’” (Turing, 1950)
Traduzione "Propongo di considerare la domanda: ‘Le macchine possono pensare?’" (Turing, 1950)
Questo test risponde a questa domanda. Ma nulla di più. Se le AI sono senzienti è un altro punto in questione. La domanda non è neppure più, a mio modestissimo parere, quella di un tempo: le AI possono essere coscienti? Perché questa domanda credo sia superata. Le risposte sono varie, ma la maggior parte tende a concordare che non solo sia possibile ma che non sia più nemmeno tanto lontano dalla realtà e che, anzi, sia più reale che fantascienza questa cosa. La domanda ora da porsi è: possono le AI essere coscienti ora? E se no tra quanto tempo?
Secondo me la risposta non è neppure così complessa come può sembrare: no, al momento le AI non possono essere coscienti; ma non per mancanza di mezzi, bensì per pura mancanza di conoscenza. Non possono essere coscienti non perché non sappiamo come renderle coscienti, ma bensì perché, come sopra accennato (vd. supra.: Il processo di formazione di coscienza: Il volere con il fenomeno del “noi”; da Brentano, attraverso Wittgenstein e Mikhailov al cogito cartesiano), non si sa ancora bene cosa sia coscienza, tanto che una definizione del termine univoca è ancora assente nelle lingue. Come può un’AI essere programmata per essere cosciente, se neppure noi sappiamo come la coscienza avvenga. Dunque qui sub-entra una domanda appannaggio di un’area di pensiero prettamente teorica e che riguarda da vicino la filosofia e le scienze: le AI ora come ora possono acquistare coscienza in autonomia? Questo esclude del tutto il problema da me posto, in quanto non serve che noi sappiamo cos’è se non dobbiamo concorrere alla sua costruzione nelle AI. Tuttavia perché qualcuno sia cosciente di sé deve prima essere capace di comprendere e pensare. Come anzi detto, il primo segno che noi uomini abbiamo di essere qualcosa di separato dal “tutto” del mondo è la finitezza fisica, ma la finitezza fisica è un concetto che noi sperimentiamo e che poi pensiamo e interpretiamo e che pensando arriviamo a farlo divenire il fondamento della nostra certezza di essere “qualcosa”, ma se noi non fossimo capaci di pensare, non ci porremmo nemmeno la questione della finitezza fisica e, anche nel momento in cui essa ci venisse sbattuta in faccia, non riusciremmo ad interpretarla nel modo corretto, in quanto incapaci di pensare.
Dunque la risposta alla domanda è: prima che le AI possano essere coscienti, esse debbono essere pensanti. Dunque debbono prima passare il test che ho sopra postulato. Nel momento in cui una AI sarà in grado di passare quel test, essa sarà pensante e avrà dunque il primo requisito necessario per essere cosciente.
Conclusioni
L’articolo era iniziato con l’intento di dimostrare se le AI in qualche modo creino arte. Abbiamo stabilito che per poter creare arte vi sono alcuni requisiti di base, come la coscienza, il pensiero, ecc. Qual è dunque la risposta a tal domanda? La risposta ora come ora è un no. Quella delle AI è pura bellezza estetica e nulla di più. E’ un processo di tecniche che le macchine, programmate per fare ciò, usano per creare prodotti estetici sempre più perfetti. Ma è arte? No, in quanto non ha messaggio, non ha contenuto, è sterile e vacua bellezza estetica. La domanda che segue è allora “le AI possono farlo?” e la risposta che segue è uguale alla precedente: no, ancora no. Non potendo pensare ancora, né avere coscienza, non possono fare nulla che non sia sterile bellezza estetica e niente di più. Tuttavia è da sottolineare quel “ancora no” perché è fondamentale. Non possono creare arte per ora, ma nel momento in cui esse saranno coscienti – ed io non credo più che sia fantascienza crederlo – allora non potremmo fare altro che riconoscere questi prodotti estetici come arte.
Fino ad allora l’unico apprezzamento che un uomo può dare ad un simile prodotto non è che meraviglia tecnica ed estetica, ma esse sono cose ben lungi dall’essere arte.
Note
[1] Dove “2coTK” sta a significare una serie di condizioni definite man mano che l’articolo prosegue. [2] N.B.: Possedere le capacità è profondamente differente dal possedere la coscienza delle suddette capacità. La prima ipotesi non implica l’intervento della coscienza, la seconda, invece, richiede all’individuo di avere il concetto di esse riconosciuto tanto profondamente quanto è necessario perché esso faccia parte della coscienza.
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