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  • Immagine del redattoreLeonardo Apollonio

La Bellezza delle Piccole Cose

Abstract


Partendo dai concetti sviluppati nel precedente articolo (v. Arte e Nichilismo: L’Estetica del Mastodontico) si cerca di comprendere qual’è la migliore direzione in cui svolgere la rivoluzione artistica a cui si accennava appunto nel suddetto articolo. In questo articolo si cerca dunque di definire concetti come “bellezza del particolare” passando per le lezioni estetiche di Heinrich Boll e Cervantes con il suo Don Chisciotte e cercando di stabilire da dove si possa attingere per ricavare un certo tipo di bellezza estetica.


Un altro articolo di Esteticadel Mastodontico? – o Forse no


Un uomo decide di andare al cinema, apre il catalogo del cinema e tutto quello che trova all’interno di quel catalogo sono film che vanno da The Killers of the Flowers Moon a Assassinio a Venezia a Dogman. Immaginiamo a questo punto anche che quest’uomo ami andare al cinema tanto che ci vada in modo abitudinario, ipotizziamo una volta a settimana. Costui, che per comodità prenderemo a chiamare X, ogni settimana, almeno per una volta, si ritroverà per due ore ad osservare meravigliato le storie impossibili, fantastiche di eroi e personaggi che attingono più o meno alla realtà del mondo. Così X, meravigliato senza fine dalle cose impossibili, fantastiche, epiche e particolari, quando andrà a lavoro ogni giorno gli sembrerà di fare qualcosa che non abbia alcun valore ed alcuna bellezza.

Questa breve scena serve a spiegare a grandi linee e in modo superficiale e semplicistico, ma appunto più semplice, il senso più generale che si possa ricavare dall’idea dietro il mio precedente articolo (vd. “Arte e Nichilismo: L’Estetica del Mastodontico”, ilSofista n°4). Tuttavia una simile spiegazione sarebbe fin troppo ridicola per il concetto di gran lunga più complesso che v’è dietro. Il mio precedente articolo non voleva dire che andando al cinema a vedere certi tipi di film ci si ritroverà annichiliti nel senso della vita, ma che piuttosto, avendo l’arte un impatto su come percepiamo, vediamo e capiamo il mondo, se l’arte ci mostra il mondo e la bellezza in un certo modo noi, dando a certe cose un certo valore e ad altre un altro, inevitabilmente finiremo per esserne condizionati. Il punto dietro il mio articolo per altro non era solo su questo concetto, ma bensì, considerando questo concetto come una sorta di assunto, l’articolo voleva analizzare appunto il tipo di condizionamento che l’arte sta provocando in questi anni, che, se lo si semplificasse sino alle più estreme generalizzazioni e lo si semplificasse sino al semplicismo più estremo, si potrebbe appunto riassumere in modo mero e bonario con la storia di X e della sua passione per il cinema.

Nel precedente articolo esaminavo due tipi di estetica: l’estetica del mastodontico, come la chiamavo, che fa appello ad una bellezza impetuosa, che affonda le sue radici nell’estetica dello Sturm und Drang tedesco, che deve essere evidente e sbalorditiva; e opponevo una seconda in opposizione a quest’ultima: la bellezza del particolare. Cosa intendevo per bellezza del particolare lo definivo con la frase: La bellezza del comune, intendendo con la parola “comune”, l’ordinario. Se a partire da ciò si dovesse definire una base per una nuova corrente estetica si potrebbe chiamare in due modi: “ordinarismo” oppure “normalismo”. In questo senso, nel senso che si voleva dare all’articolo, l’arte ha bisogno di una rivoluzione in conclusione. Alla domanda “perché?” risponde tutto il precedente articolo. Questo articolo vuole invece meglio spiegare non perché sia bene cambiare e rivoluzionare l’arte, ma bensì in che modo, più precisamente, essa va cambiata. Non basta dire che serve fare più attenzione ad una bellezza del particolare, se poi come porre questa bellezza in materia artistica non è spiegato, né è facile farlo se poi non si spiegano bene i significati dietro parole come “ordinario”, “normale”, “comune”, “particolare”.

Si noti bene, tuttavia, che il presente articolo non ha intenzione di fondare le basi di una nuova estetica così chiamata “normalista” o “ordinarista”, ma bensì spiegare cosa si intende per “estetica del particolare”; cosa, al di là delle spiegazione storiche, degli esempi e delle contrapposizioni esaminate nel precedente articolo, intendevo dire con “estetica del particolare” e come si dovrebbe prospettare una simile estetica in caratteri sempre generali, ma comunque più specifici di quelli esaminati in modo molto vago in precedenza.

Partiamo dalle basi: l’estetica che voglio esaminare non è l’estetica dell’ordinario in sé, ma l’estetica del particolare. Che cosa ciò voglia dire mi prenderò l’incarico di spiegarlo in questo articolo.


Cosa vuol dire “Particolarismo” – Oppure L’Estetica del Clown e del Don Chisciotte


Come ho scritto nel precedente articolo, una delle cose, a mio parere, più magistrali della prosa di Heinrich Böll è l’estetica che il protagonista del libro “Opinioni di un Clown” possiede. Tutta la trama del libro gira intorno ad un fatto: Schnier, il protagonista, un clown di origini borghesi (che lui rinnega profondamente e, anzi, sferza con sarcasmo), vede il mondo con una particolare sensibilità che sembra incantare lui e pochi altri, forse nessuno. Ha una sensibilità così spiccata che si abbandona ai ricordi, ed effettivamente lo scorrere del tempo all’interno del libro, non esiste: tutta la storia, che occupa più di duecento pagine di libro, si svolge in meno di due giorni. Lui torna a casa dopo una brutta critica, una separazione con la moglie – moglie che lui ha sempre amato profondamente – la quale si è risposata con una persona che Schnier detesta, una gamba indolenzita da un infortunio, e al verde. Incontra qualche persona, fa qualche telefonata e poi il libro finisce. Tutto nel giro di pochissimo tempo. Ciò che tiene il lettore incollato alla scena non è l’azione, perlomeno non l’azione pratica, bensì l’azione mentale: l’astrazione, il ricordo, il pensiero. Lui ricorda, ricorda tutta la sua vita senza un preciso ordine cronologico, senza neppure un preciso filo conduttore, ma passando da cosa a cosa quasi con voli pindarici, collegati da un non nulla. Un perfetto flusso di coscienza. Allora ci si aspetta di trovare tanti ragionamenti profondi in questo libro, ma neppure questo fa Böll. Non si dilunga in sproloqui filosofici. La critica letteraria, che è autrice della quarta di copertina del mio libro, e della presentazione del libro che si trova su internet, dissentirà sicuro con me, sostenendo che in realtà sono riflessioni socio-politiche che criticano l’ipocrisia di una borghesia tedesca nel secondo dopo guerra. Il che è vero; ma il punto del libro, almeno per me, non è quello. O forse è quello, ma non è lì che il libro rende la sua bellezza; non è nella critica politica, sociale o teologica; critica per altro spesso piena di sarcasmo, su cui non ci si dilunga troppo, ma fatta di frecciatine infilate qui e lì fra le righe del libro. La grande dote del libro è la capacità dell’autore di creare enormi sensazioni di tenerezza, dolcezza, bellezza, tristezza ecc., partendo dal nulla. Da quello che a noi sembra completamente irrilevante. Vi sono vari pezzi in cui questo si può notare pur non avendo letto nulla del libro e credo che ne valga la pena di citarne alcuni:

“L’idea che Züpfner potesse stare a guardare Maria mentre si vestiva o che osservasse come avvitava il coperchio al tubetto del dentifricio mi faceva star male. [...]Inoltre mi tormentava il pensiero che magari a Züpfner non importasse assolutamente di osservare Maria mentre avvitava il tubetto del dentifricio.”
“Vidi il ragazzino risalire la strada sulla sinistra, diretto verso la piazza della stazione. Era bagnato fradicio e teneva la cartella di scuola aperta davanti a sé nella pioggia scrosciante. Aveva rovesciato il coperchio di cuoio e la reggeva con un’espressione sul viso come l’ho vista nei quadri sui volti dei Re Magi nell’atto di porgere al Bambino Gesù oro, incenso e mirra. Vedevo dentro la cartella le copertine dei libri, bagnate, già qua disfatte. L’espressione del suo viso mi ricordò Henriette: rapita, sperduta, piena di estatica solennità. Dal letto Maria mi domandò: «A che cosa pensi?», e io risposi: «A nulla». Vidi il ragazzino camminare ancora verso l’atrio della stazione, lentamente, e poi scomparire all’interno e io ebbi paura per lui.”
“Maria indossò il vestito verde scuro e sebbene avesse difficoltà a far scorrere la chiusura lampo, non mi alzai per aiutarla: era così bello stare a vedere come si cercava la schiena con le mani, vedere la pelle bianca, i capelli bruni e il vestito verde scuro; e mi piaceva anche vedere che non si innervosiva.”

In tutti questi passi del libro la bellezza che cattura l’attenzione del protagonista, il quale sembra in qualche modo essere un alter ego dell’autore, non è nulla di speciale: un bambino sotto la pioggia a cui si apre la cartella di scuola, una donna che apre un tubetto di dentifricio, una donna che si tira su la lampo di un vestito verde. Cosa c’è di speciale in queste cose? Sono cose ordinarie, che tutti vediamo, che tutti facciamo a volte. Ciascuno di noi da bambino andando a scuola si sarà bagnato sotto un acquazzone, alla mattina tutti noi svitiamo il dentifricio, e tutti noi una volta nella vita abbiamo tirato su la lampo di un vestito o per noi o per qualcun altro. Non era speciale il vestito, non era speciale il dentifricio, non era speciale il bambino, né la donna. Certo, quando si parlava della donna c’era un amore che faceva da sfondo, ma la donna in sé non era alcuna Beatrice né alcuna Laura. Non era speciale, era una semplice donna di cui si era innamorato. La bellezza di questi gesti viene trovata dall’occhio che guarda. Queste cose non sono belle in sé. Non sono belle a tutti, non sono evidenti, non sono bellezze ideali, né sono belle spettacolari. Sono cose comuni in cui Schnier trova una bellezza sbalorditiva grazie unicamente alla sua sensibilità e alla sua astrazione mentale delle cose. Aprire il tubetto di dentifricio non è più solo aprire il tubetto di dentifricio, è aprire il tubetto di dentifricio in modo particolare, in modo diverso da come lo fanno tutti gli altri, magari Maria (la donna) lo apre girando il tappo lentamente, oppure lo fa usando solo indice e pollice per non sporcarsi; non importa, ma è in quei dettagli che lui trova la bellezza. Nulla è più esemplare di questo processo del passo che del bimbo sotto la poggia: il bambino assume un’espressione che incanta l’osservatore, perché l’osservatore l’astrae e la paragona all’espressione che vedeva nei quadri dei Re Magi nell’atto di porgere al Bambino Gesù oro, incenso e mirra; e poi viene paragonata all’espressione della sorella perduta del protagonista: “L’espressione del suo viso mi ricordò Henriette: rapita, sperduta, piena di estatica solennità.”. Ma tutto ciò viene dall’opera del suo pensiero e della sua sensibilità ed infatti quando la moglie gli chiede a cosa pensa, cos’è che lo prende tanto, lui risponde che non è nulla. E qui diviene evidente come questo tipo di bellezza, che lui poco dopo dirà provenire da quello che lui chiama “il senso del particolare”, viene dalla sensibilità soggettiva dell’individuo che astrae e sublima in modo personale un attimo, un momento, un dettaglio, un particolare appunto, all’apparenza ordinario rendendolo speciale. Ecco perché svitare il tubetto del dentifricio è bello; perché non è bello, ci diventa per opera mentale dell’artista.

Quest’opera d’astrazione mette in primo piano la bellezza dell’ordinario, sublimandolo. Ma non è nemmeno l’ordinario ad essere bello, l’ordinario acquista bellezza per i piccoli dettagli, per i piccoli particolari all’apparenza insignificanti che l’artista, l’osservatore trova belli per una sua opera di sensibilità ed intelletto. Questa operazione non è altro che una semplice operazione dialettica: il particolare ordinario (tesi) trova l’opposizione nella sensibilità dell’artista o dell’osservatore (antitesi) che fondendosi con il particolare rende l’ordinario sublime (sintesi).

Se si dovesse trovare un simbolo a questa operazione dialettica alla base di quello che, da ora in poi, chiamerò “particolarismo” (ovvero l’estetica che ha alla base tale operazione), oltre a Schnier, il clown di Böll, si potrebbe fare il nome del massimo astrattista del particolare della realtà: Don Chisciotte; il quale compie quest’operazione con tale sensibilità e distaccamento dalla realtà che neppure sarebbe propriamente definibile un particolarista; giacché non vede più la bellezza della cosa normale, ma semplicemente la vede in una trasformazione della cosa. Nell’operato di Don Chisciotte non c’è la sintesi, la tesi viene vinta dall’antitesi e non si giunge più alla sintesi: la dama di questo cavaliere errante è considerata da lui una principessa, o meglio, per lui è una principessa, nonostante lei in realtà sia una contadina. Ora, per essere particolarista, il Don Chisciotte dovrebbe considerare una contadina una principessa per la bellezza che lui vede in lei, rimanendo cosciente però della realtà; e anzi, trovando la bellezza proprio a maggior ragione per questa realtà: lei è una contadina ma ha la bellezza della principessa. Lì è la sintesi, nella fusione delle due caratteristiche, una reale e una opera della sensibilità artistica, che sublimano l’oggetto.

Tuttavia, seppure il Don Chisciotte non è considerabile particolarista, è sicuramente un esempio così esagerato che può benissimo fungere da esempio per trasmettere l’idea alla base del concetto. Ovvero che la realtà debba subire un’operazione della mente per essere sublimata.

Il particolarismo è dunque un’estetica dialettica, se si può definire così, che attraverso una sensibilità del soggetto compie una sublimazione d’un particolare ordinario rendendolo speciale ai propri occhi. E dunque all’interno del particolarismo ad avere la scena non è un quadro ordinario, ma il particolare ordinario, che rende poi il quadro più bello di come sarebbe senza di esso.

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