Leonardo Apollonio
Il Paradosso della Competizione
Aggiornamento: 17 apr
ABSTRACT
Ti svegli e sei programmato. Programmato per lottare, lottare per il posto di lavoro, per l'aumento, per il miglior voto, per passare l'esame universitario, per l'erasmus, la borsa di studio. Poi stacchi e fai sport, per competere nella forma e nella bellezza (se non consciamente allora inconsciamente), per competere contro l'avversario e contro l'altra squadra. Poi finalmente ti siedi a casa sul divano e leggi, guardi un film, giochi ai videogiochi; ti immedesimi nel protagonista tra le pagine e tra i fotogrammi e lotti come lotta il protagonista nel film e nel libro. Lotta con sé, lotta con la società, lotta contro il male. Così accendi il pc o la console e giochi a qualche gioco dove lotti e competi per il miglior punteggio, per vincere la partita, per sconfiggere l'avversario. E quando finisce la competizione? Mai è la risposta che questo articolo offre. E se non finisce mai cosa succede? Questa la domanda a cui risponde l'articolo, illustrando il paradosso che si crea nella società contemporanea.
INTRODUZIONE
Definizione
“Proposizione formulata in apparente contraddizione con l'esperienza comune ( i p. degli stoici ) o con i principi elementari della logica, ma che all'esame critico si dimostra valida.”[1]
Stando al dizionario il paradosso è dunque questo: una proposizione contradditoria dimostrata dalla logica. Ma se il paradosso non fosse una proposizione? Una proposizione è un’affermazione, una domanda, una frase. Le proposizioni, seppur significanti, non necessitano di essere reali. Prendiamo in esempio la frase «Gli uomini sono tigri con le ali.» Questa è una proposizione, un’affermazione; è significante, in quanto significa esattamente ciò che dice; ma è scollegata dalla realtà, è irreale, in quanto l’uomo non è una tigre, né tantomeno una tigre con le ali. Se dunque il paradosso smettesse di essere una proposizione, ma divenisse una descrizione della realtà? Già in questo caso si richiede alla proposizione di non essere solo significante e assertiva (in quanto ogni descrizione nel descrivere asserisce), ma anche legata alla realtà, giacché ha il compito di descriverla. Eppure la descrizione può essere scollegata dalla realtà attraverso la retorica (es. la metafora). Prendiamo ora, infatti, come esempio una seconda frase «L’uomo è un leone.» Certo la proposizione non sta asserendo che l’uomo e il leone siano la stessa cosa, ma che l’essenza del leone può essere traslata nell’essenza dell’uomo; ma l’uomo ha l’essenza del leone? No, giacché se le essenze dei due combaciassero, sarebbero la stessa cosa. Dunque la descrizione non basta per asserire il vero, basta solo ad asserire le somiglianze del vero. Se, infine, il paradosso fosse dunque, in ultima analisi, la proposizione esplicativa della realtà? In questo caso nello spiegarla si elimina la possibilità dell’irrealtà della proposizione, giacché, pur usando l’irreale per spiegare il reale, essendo il fine dell’esplicare permettere la comprensione, si finirebbe per comprendere il reale, foss’anche attraverso il suo opposto. Certo, essendo un paradosso, è richiesto alla proposizione di essere in contraddizione con l’apparenza delle cose, in quanto, se così non fosse, non avrebbe l’attributo primo del paradosso (dal gr. Paradoxos, “contrario all’opinione comune”; comp. di para- nel sign. di “contro” e dòxa: “opinione”[2]).
Definito dunque il paradosso e avendo dimostrato il perché di tale definizione, definiamolo:
Paradosso:
“Proposizione formulata con il fine di spiegare la realtà, essendo tuttavia in contraddizione con l’apparenza della r.”
0.2 Il secolo dei paradossi
Si è definito dunque il paradosso come esplicativo della realtà. La domanda sorge spontanea a questo punto: “come fa il paradosso a spiegare la realtà?” Ed è quello che sto per spiegarvi, di paradosso in paradosso.
Il 2023 è appena iniziato, fra festeggiamenti e scoppi. Siamo nel XXI sec., il secolo della modernità, dell’online, del futurismo[3]. Il secolo anche dei paradossi.
La realtà, per quanto sembri la massima espressione della coerenza, è incredibilmente paradossale. Gli uomini, gli esseri liberi par excellence, girano liberi in prigioni moderne costruite per alimentare quegli stessi sentimenti che li ingabbiano: i centro-commerciali. Gli uomini, gli esseri che comprano e commerciano, gli stessi esseri che comprano l’idea di sé stessi e il loro progresso, gli stessi che nel comprarsi, si vendono a loro stessi.
Nella realtà, se si cerca addentrandosi oltre lo specchio dell’apparenza e della superficialità, si può trovare un’enorme quantità di paradossi che spiegano la società contemporanea.
In questo articolo ci occuperemo dunque di spiegare il paradosso di alcune caratteristiche (appunto paradossali) della società.
1.0 IL PARADOSSO DELLA COMPETIZIONE
1.1 Definizioni
Paradosso della competizione:
“Il paradosso della competizione è quello stato identitario paradossale nel quale la competizione fa ricadere l’umano e che sfocia in una circolarità infinita.”
Competizione:
“Gara che ha termine esclusivamente con la sottomissione di una o più parti da una terza parte che acquisisce superiorità riconosciuta”
1.2 La nascita della competizione e la sua circolarità infinita
Partiamo dalla nascita di tutto, dall’origine. Partiamo dunque dalla domanda: “Perché la competizione?” Risposta: si compete per ottenere un’elevazione, uno stato di superiorità; sia esso conferito dalla fama, dalla nobilitazione sociale, da un premio o da un semplice riconoscimento di merito. Cosa presuppone dunque la competizione? La diseguaglianza delle cose. Due cose uguali non competono, in quanto, essendo appunto uguali, niuna delle due necessita (se non per avidità) di elevarsi al di sopra dell’altra; due cose disuguali, al contrario, sono la causa prima della competizione, giacché ciò che è inferiore deve diventare superiore per nobilitarsi (per avere rispetto, per essere considerato, ecc.). In cosa sfocia la competizione? In ulteriore diseguaglianza, perché due cose, seppur in origine uguali, dopo la competizione devono essere diseguali, una deve essere superiore all’altra[4]. Dunque la competizione, che per avidità può nascere persino dall’uguaglianza, si nutre della diseguaglianza, la quale è provocata, in ultima analisi, proprio dalla competizione. È giusto dunque dire che quest’ultima si nutre di se stessa.
Si potrebbe difatti analizzare la competizione come una messa in pratica della teoria Hegeliana di testi, antitesi e sintesi:
Tesi: il desiderio di vittoria, che può essere teso alla nobilitazione della persona, alla fama, alla vincita di denaro ecc.
Antitesi: l’avversario che, possedendo la stessa tesi del primo, è la diretta antitesi della tesi.
Sintesi: la vittoria del partecipante che ha nella sintesi un’elevazione rispetto alla tesi, in quanto vincendo comprende l’antitesi. Prendiamo l’esempio di un corridore: un corridore vuole vincere una gara (tesi), l’avversario desidera la stessa cosa (antitesi); il corridore vince grazie alla sua abilità, la quale ora comprende l’abilità del vinto in quanto l’abilità del primo è superiore a quella del secondo (sintesi).
Tesi 1: Il desiderio di rivincita del vinto.
Antitesi 1: Il vincitore che, detenendo uno stato di superiorità, non vuole rinunciarvi.
Sintesi 1: La vittoria del vinto sul vincitore con conseguente ribaltamento dei ruoli.
E così ricomincia il giro andando avanti all’infinito.
Abbiamo dunque evidenziato due cause della competizione: avidità e diseguaglianza. Entrambe sono riconducibili ad un evento della storia umana che le ha originate: la nascita della proprietà privata.
“Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno.[5]” Ahimè, nessuno disse queste parole e così nacque l’avidità e la proprietà privata. Nel momento in cui ciò che è mio non necessariamente è tuo, se io possiedo qualcosa[6] che tu non possiedi, io sono superiore a te, in quanto ho qualcosa che a te manca. Nasce così la diseguaglianza. Dunque dal momento che io non debbo necessariamente esserti uguale, ma posso esserti superiore, mi domando cos’è che dovrebbe fermarmi da, quanto meno, provare ad esserlo. Così nasce l’avidità.
Se perciò il mondo dell’uomo non è più uguale, ma diviso in fasce di superiorità[7], nasce il bisogno di nobilitazione. Il primo è il primo di tutti e non compete giacché non ha nessuno con cui competere, tuttavia ogni persona che non sia lui compete per diventare lui. Colui che non ha niente compete contro gli altri che non hanno niente per diventare “colui che ha qualcosa”, colui che ha qualcosa compete con gli altri che hanno qualcosa per divenire “colui che ha delle cose”, e così via fino ad arrivare a diventare “colui che ha più di tutti”.
La competizione, fecondandosi da sé, producendo se stessa e nutrendosi di se stessa, è dunque un circolo vizioso tendente all’infinito.
1.3 La competizione oggi
Questo paradosso è uno dei più legati alla contemporaneità per vari elementi, e questa caratteristica lo rende – a mio modesto parere – uno dei più importanti, nonché uno dei più curiosi. Bisogna però, per comprenderne l’importanza, capire non solo la natura fatta di cause e conseguenze della competizione, serve comprendere anche il ruolo fondamentale che essa acquisisce nella società contemporanea.
Vediamo dunque il ruolo della competizione nel XXI sec, senza, però, divagare troppo, giacché lo scopo del paragrafo e, più ampiamente, dell’articolo è quello di analizzare i paradossi e non di divagare in una descrizione sociologica della contemporaneità.
Il neoliberismo che inneggia alla competizione in ogni forma, campo e situazione, ha portato noi uomini e divenirne schiavi. Competiamo per tutto: l’intrattenimento è competizione, il sentimento è competizione, il diritto è competizione, l’istruzione è competizione, il lavoro è competizione ecc. L’intrattenimento è competizione dall’inizio alla fine, dai giochi (da tavolo e digitali, arcade e competitivi) in cui è gara contro gli avversari, passando per i film (sia cinema d’essai sia cinema hollywoodiano e commerciale) nei quali il protagonista deve affrontare e competere contro qualcosa, deve lottare[8], sia una lotta metaforica o un combattimento contro un nemico, infine i libri anche lo sono, il protagonista contro il mondo, contro sé stesso, contro la società ecc. Il sentimento è competizione in quanto amiamo per nobilitarci, per avere il compagno/a migliori, più belli, per avere la relazione più equilibrata, più riuscita. La dimostrazione di sentimento anche è divenuta competizione, la prestanza sessuale esercita grande agonismo nella società (chi è più performante ecc.). Il lavoro dove il tuo posto non è il mio, dove l’aumento se lo prendi tu non lo prendo io, dove la promozione se è mia non è tua. Infine il denaro, il salario, in un mondo in cui tutto è commercio, in cui tutto va comprato, rende competizione anche il diritto: non ho vita se non ho soldi (devo nutrirmi, coprirmi, curarmi ecc.), e, se ribellandomi hai soldi non ho più vita, non sono libero. Devo dunque compete persino per il diritto più fondamentale di tutti: la vita.
Senza dilungarci oltre, mi sembra chiaro come un paradosso nell’elemento più importante dell’esistenza umana sia uno, quantomeno, tra i più importanti.
1.4 Il paradosso della competizione
Abbiamo dunque compreso l’importanza della competizione, tanto quanto le sue cause. Passiamo ora alla spiegazione del paradosso.
In un mondo in cui si compete sempre si avvia un processo tanto semplice quanto distruttivo: l’alienazione. Marx la identificava nel lavoro, ma non si limita necessariamente a quell’ambito. La si pensi infatti applicata alla competizione: si pensi ad un uomo che compete e compete e nel competere produce per compete, produce soldi per averne più degli altri, produce[9] premi per averne più degli altri, e così via. In questo continuo competere e produrre per competere l’identità si dilegua, diventa un’ombra e si risiede nell’anonimato della categoria. L’imprenditore che compete producendo soldi finisce per diventare imprenditore che produce soldi e non più “individuo x”, giacché la caratteristica che lo distingue è il competere producendo soldi, proprio come tutti gli altri che competono producendo soldi. Si diventa dunque tutti una grande massa senza fine di competitori identici l’uno all’altro senza identità se non quella di massa, di categoria. In questo processo di perdita dell’identità inconsciamente la competizione muta da mera competizione per nobilitarsi, per soldi ecc. e si tramuta in qualcosa di più profondo. Il capitalista che produce soldi nel competere per avere più soldi, una volta persa l’identità non compete più per i soldi, almeno non solamente, bensì inconsciamente compete ottenere ciò che ha perduto nel competere: l’identità. Invero l’unico che ha identità è il primo, il “più grande fra tutti”, che ha identità in quanto unico, in quanto essere diverso da tutti. E dunque il capitalista non
compete più solo per i soldi, ma anche per l’identità, tuttavia questa competizione continua causa perdita d’identità causando un circolo infinito di perdita e competizione che porta a perdita e competizione e così all’infinito. Anche nel momento in cui ci si illude di interrompere questo cerchio ci si ritrova in realtà ancora imprigionati dentro: l’unico modo per avere identità è, come abbiamo detto, essere il “più grande fra tutti”, ma questo status identitario va mantenuto e dunque si deve competere per mantenerlo, si compete contro coloro che minacciano di superare il proprio status, e in questo competere divento un altro competitore che perde la propria identità nella continua competizione.
E dunque il paradosso è questo: competere per acquistare l’identità che la competizione elimina.
[1] Dizionario Oxford Languages, Società, https://www.google.com/search?client=opera-gx&q=società&sourceid=opera&ie=UTF-8&oe=UTF-8 [2] Enciclopedia Treccani, Paradosso, https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/paradosso/ [3] Nel sign. di “con l’apperenza del futuro” [4]La competizione, per essere compiuta, deve finire con la vincita di una cosa sopra l’altra; vd. infra. “Definizioni”; “Competizione”. [5]Jean-Jacques Rousseau, Sull’origine dell’ineguaglianza, a cura di V. Gerratana, Roma, Editori Riuniti, 1968, parte II, pp. 133 [6]Non necessariamente un oggetto; anche una conoscenza, una forza armata ecc. [7] Le contemporanee classi sociali [8]Cos’è la lotta se non il massimo grado della competizione [9]Nel sign. di ottiene tramite le sue capacità [10] Dove “T” sta per “tecnica”, “Te” sta per “teoria” e la “p”, maiuscola e minuscola, sta rispettivamente per “acquisizione di plusvalore” e “mancanza di plusvalore”. [11] Il fallito nella società del XXI sec. è colui che ha mancanza di denaro (es. niente lavoro, per cui niente salario; impossibilità di mantenersi; necessità di chiedere prestiti, ecc.). [12] “Un’idea”, Giorgio Gaber, “Far finta di essere sani”, 2002 [13] Dove “O” sta per “oggetto”, “prodotto” [14]Inteso come guadagno, plusvalore