Leonardo Apollonio
Il Nuovo Mondo - Il Regno delle Macchine e la Shitstorm
Abstract
Il mondo del XXI secolo, un secolo dominato dal web e che doveva essere il secolo del futuro. L’uomo ha raggiunto l’apice, almeno così sembra a un primo sguardo: grandi scoperte scientifiche sono alle porte, tante altre sono già state fatte e quelle che un tempo sembravano essere pura fantascienza ora si avvicinano al vintage. Siamo nel secolo dei grandi Steve Jobs, Bill Gates, Jeff Bezos ed Elon Musk. Eppure qualcosa che non va c’è, lo si sente, lo si percepisce, ma non ce lo si spiega completamente.
Il pensiero critico sembra aver abbandonato il mondo che conosciamo. L’arte, la cultura e la solidarietà ormai non sono altro che grandi miti distrutti dall’ondata massiva dell’online culture e della grande ignoranza che è tornata a popolare questa nuova epoca.
Ma l’origine di tutto questo dov’è? Dove si può rintracciare la causa di questa decadenza dell’uomo? Sebbene magari non sia l’unica causa, basta alzare il velo di buonismo e ordine che popolano il web, divenuto ormai l’unico vero dominatore del mondo, per trovarvi una palude infinitamente profonda di irrazionalità, pensiero acritico, di meri istinti, di tristezza depressiva, infinita lascivia pornografica, ultra semplificazione e computazione sociale.
Eccola la causa di tutto ciò: la computazione sociale. Siamo divenuti macchina, automi che seguono un codice e ciò innesta una catena causale che ci porta a questo mondo del 2000.
Introduzione: Il fascino del computabile
Shitstorm[1] la chiama Bifo. La tempesta di merda, la tempesta che ha colpito, e continua a colpire, il mondo del XXI secolo.
Siamo rinchiusi negli egoismi neoliberisti, nella produzione sfrenata che inneggia alla competizione. L’uomo compete, e compete per il salario – “E che salario poi!” Si potrebbe obbiettare a ragion veduta, ma non voglio occuparmi di ciò. Ci ritroviamo, intrappolati, o meglio, Bunkerizzati, per usare un altro termine Bifoniano, nel tecnoverso digitale; in questo universo più reale di quello vero e meno tangibile di qualsiasi altro; rinchiusi e isolati fisicamente, eppure costantemente interconnessi tecnologicamente; inscritti in un codice sociale automatizzato e tecnicizzato. Se qualcuno va al di là del codice ecco che appare nella nostra testa l’allarme d’errore come una stringa di programma inserita male: Syntax error. Ed ecco il trionfo dell’omologazione: la computazione sociale che spersonalizza e disempatizza.
Siamo stati ridotti ad ameba vegetale, automa inconsapevole che segue il codice di una grande macchina e noi stessi, nel puerile tentativo di adattare il mondo alla tecnologia che semplifica e cataloga, che inserisce in algoritmi e codici, ci siamo semplificati a tal punto da diventare noi stessi una macchina.
Questa nuova macchina domina come programmatore sociale, macchina programmata da noi e anche riprogrammabile da noi. Tuttavia si è verificato un altro paradosso – affascinante la società contemporanea, affascinante per coerenza: Il programmatore della macchina programmata è diventato macchina programmata della macchina programmatrice. Detta in termini semplice, ci siamo rinchiusi nella cella costruita da noi, ci siamo messi la chiave in tasca e ci siamo scordati di averla.
Eravamo incompatibili perché troppo complessi: il linguaggio era così pieno di variabili e ogni individuo era in sé qualcosa che non poteva essere altro se non se stessa. L’uomo, però, nel tentativo di creare una macchina che spiegasse tutto e che tutto potesse capire, ha finito per semplificarsi a tal punto da essere computabile, da divenire nient’altro che un codice in sé, controllato da algoritmi scritti da lui, divenuto catalogabile in macro-masse troppo grandi e troppo semplicistiche (vd. infra: “[…] tu non sei più individuo x, sei semplicemente membro x dell’insieme Y. Anonimo membro di un insieme in cui tutti i membri sono identici […]”).
L’astrazione infinita ha finito per semplificare più di quello che era possibile semplificare, da troppo complessi, siamo divenuti troppo semplici.
Il linguaggio ormai esiste come codice secondo il quale comunicare, e il linguaggio che va al di là di ciò viene incompreso, giacché non identificabile nell’algoritmo (v. parag. “La nuova dimensione comunicativa del XXI secolo”); la politica è stata spogliata di ciò che la caratterizzava: le ideologie, che così astratte, così complesse, non erano codificabili nell’algoritmo sociale; i rapporti ragionano su un paradigma e ciò che va al di là scatena furibondi litigi o distruzioni; e la vita è fatta di scelte binarie. (vd. par. “Make the man great again!” – la dimensione depressiva e violenta del web”).
La chiave per la semplificazione, strumento necessario alla computazione e all’automatizzazione sociale, è stata la standardizzazione di ogni cosa che si poteva standardizzare: le comunicazioni, ormai paradigmatiche, le relazioni, i pensieri, l’intellettualità (spesso ridotta a banalità), ecc.
Incredibile è anche questo additamento verso “Loro”. “Loro”, questa schiera di eletti dominatori del mondo (anche questo suona complottista eh?). “E’ Loro la colpa”. Esseri mistici, dei che controllano l’umanità. Mi sembra di essere immerso in un lunghissimo trip. Ecco che all’ennesima notizia del giorno la colpa è Loro.
No. Mi spiace dirlo. La colpa è nostra.
Se preferite potete dire che la colpa è “Loro”, ma solo nel mondo in cui è valida l’equazione Loro=Noi. Potete anche continuare a incolparli in un mondo in cui l’equazione non sia valide o addirittura incontemplabile e inscrivibile, certo, è una possibilità. In quel caso complimenti per l’inganno, è il miglior inganno mai riuscito: il mondo che inganna sé stesso e si scorda di essere ingannatore. Come fai a uscirne? Semplice: in queste condizioni non ne esci.
La nostra vita ha assunto una dimensione ciclica, come un videogioco arcade; ogni giorno un nuovo livello identico al precedente:
1. 1. Press Enter to start the game, player.
3. 3. Press space to wake up.
4. 4. Press 1 to go to work
5. 5. Press 2 to go on a lunch break
6. 6. Press 3 to go back to work
7. 7. Press 4 to go back home
8. 8. Press 5 to have a dinner
9. 9. Press 6 to watch tv.
10. 10. Press 7 to go to bed.
12. 12. Level success! AWESOME!
13. 13. Thanks for playing.
14.
15. 15. Press Enter to go to the next level: “Day 2”
Come le nostre vite assomigliano più ad un programma che ad una vita, e così le nostre relazioni, lo accennavo poco fa. C’è il paradigma delle relazioni inscritto nella macchina sociale, come un codice. Quando si viola il paradigma si sconfina nel litigio e nelle incomprensioni. Se, come in un computer, si preme f1 invece di f2 avviene il fenomeno dell’incomprensione, giacché il computer(=neoumano[2]) decifra f2 e reagisce ad esso come da paradigma. Non siamo capaci di astrarre dalla semplice azione, non siamo capaci di analizzare l’evento x come causa di un’intenzione (e anche questo è un processo troppo complicato per essere computerizzato e automatizzato); ci limitiamo ad analizzarlo secondo il paradigma relazionale senza indagare la qualità di quell’intenzione. Per un computer se si premi f2 lui esegue f2 anche se non si aveva l’intenzione premerlo; non è importante, la macchina riceve l’input e reagisce all’input con output, così funziona l’uomo del XXI secolo: input e output, chiama gli input “eventi esterni” e gli output le proprie “reazioni”, ma non fa nulla di più se non seguire pedissequamente un programma inscritto nel suo inconscio e stabilito dalla macchina sociale.
Non siamo più in grado di stabilire una morale individuale, giacché la morale sociale è già inscritta nel codice e il codice ci impedisce anche di sconfinare oltre un certo limite al di là di questa morale. L’imposizione di codice altro è impedita dal codice stesso, rigorosamente applicato da neoumani automatizzati. Non si riesce ad andare oltre perché noi stessi non ce lo permettiamo. “Questo è giusto”, “Questo non è giusto”; comandi semplici, come stringhe di programma inserite nell’interconnessione sociale, eliminano dalla nostra mente qualsiasi altra possibilità che il programma sia obsoleto o incompatibile con la macchina. Il weirdo, lo strambo, è la macchina incompatibile con il programma: se non segui il paradigma, il codice, sei automaticamente catalogato come qualcosa di mal funzionante. Se un computer non esegue un programma o va in crush lo si porta a riparare per ricondurlo ad uno stato di funzionamento (ovvero subordinazione al programma), così la società: o ti adegui al codice o sei incompatibile con esso e con tutte le macchine che comunicano sulla base di quel codice.
Suona ora molto attuale quella frase di un grande filosofo illuminista: “L’uomo è nato libero e dappertutto in catene”.[3]
In questo clima di semplicità l’intelletto è bloccato. Una cosa così complessa e lenta come la razionalità non riesce a stare al passo con il velocissimo ritmo dell’epoca contemporanea ed è troppo complesso per la computazione sociale; e se si scorge un po’ sotto la superficie “immacolata” del web che quasi tutti conoscono, ma ignorano, se ne possono osservare le cause: violenza, depressione, rabbia, irrazionalità. Ecco ciò che in molti temevano, ecco l’incubo dei pensatori e degli intellettuali: la morte della razionalità. Gli istinti primordiali sono esaltati, così come viene demolito il pensiero critico e razionale. Siamo tornati uomini in catene che si illudono di vedere qualcosa muoversi quando vedono solo le proprie ombre, siamo ritornati in quella caverna dalla quale Platone ci intimava di uscire. E lì, in quel buio, siamo ritornati esseri primordiali che ragionano con strumenti primordiali. (vd. infra: “[…] Questo mondo virtuale sembra, alla fin fine, essere governato da istinti primordiali, dai semplici istinti. E semplice sembra esserne anche la spiegazione: la razionalità, i sentimenti, le emozioni, sono cose troppo complesse e troppo lente per il mondo del web che si muove a velocità assurde […]”).
Una semplice climax può spiegare questo secolo:
L’uomo crea la macchina, la macchina prende potere, la macchina crea l’uomo, l’uomo diventa macchina e la macchina diventa l’uomo.
Ecco come si è arrivati a questo punto.
Voglio osare e provare a dare una semplice definizione al secolo spesso chiamato il secolo della decadenza: il secolo della semplificazione.
Tutto nasce da lì: il fascino del semplice, il fascino del computabile.
La nuova dimensione comunicativa del XXI secolo
Le comunicazioni stesse sono standardizzate e ridotte. Il linguaggio è mutato, ora si comunica attraverso i meme, attraverso le emoji ed attraverso gli acronimi di parole comuni (cmq=comunque, btw=by the way, pk=perché ecc.); la lingua si sta assolutizzando, globalizzando e astraendo dal mondo. Il signifcante non deriva più dal mondo pratico, non è definito dalla fisicità delle cose, ma dal catalogo della tastiera digitale. C’è un multilinguismo, una contaminazione linguistica continua della lingua inglese all’interno delle altre lingue. Quanto ci metteremo a passare tutti alla lingua inglese? La lingua universale è fatta di neologismi multilinguistici, di fusioni tra più lingue:
[radice verbale straniera + desinenza verbale nostrana]
Es.:
Shopp-are, miss-are, chatt-are, livell-are, follow-are, unfollow-are ecc.
Nei casi peggiori si verifica proprio la contaminazione totale: entrano a far parte del linguaggio termini stranieri nella loro totale interezza (shopping, gaming, device, computer, mindset, aesthetic, mood, community, comfort, cash ecc.). C’è una disintegrazione della lingua, un’omologazione linguistica in via di sviluppo che standardizza le conversazioni.
Questo standard viene rafforzato da una lingua sovranazionale, una lingua tecnologica universale: le emoji; uguali in tutto il mondo e con lo stesso significato in qualsiasi lingua.
Nel 2015 l’Oxford English Dictionary ha nominato il pittogramma chiamato ufficialmente “faccina con lacrime di gioia” (l’emoji del LOL) come la parola dell’anno.
Questa standardizzazione avviene non solo nell’atto di definire per l’appunto uno standard, un paradigma di base, sul quale basare le leggi della tecno-grammatica, della lingua digitale – cosa che la rende inevitabilmente anche universale –, ma avviene anche nell’atto di semplificazione della lingua. Le abbreviazioni e gli acronimi per parole sempre più comuni sono sempre più diffusi, le emoji sono usate sempre più; ora si è passati ad un’ulteriore innovazione: gli sticker (spesso abbreviati nel termine stick), piccole immagini che descrivono le espressioni in modo umoristico o conducono la conversazione con brevi freddure. Diciamo che si possono definire dei piccoli meme per la messaggistica. Nel momento in cui scrivo l’articolo lo sticker più in voga è quello del cosiddetto “omino in bianco e nero”: un omino stilizzato che comunica con caricaturali espressioni del viso e del corpo e senza l’uso di scritte o fonemi alcuni.
Non vorrei fare il passo più lungo della gamba e suonare esagerato, ma è evidente che dalle emoji o dagli sticker ai geroglifici egizi la distanza è poca: si tratta con ambe due di scrittura attraverso pittogrammi stilizzati che rappresentano oggetti o azioni.
Oltre a pittogrammi e ad acronimi la semplificazione standardizzante della lingua si afferma anche con l’atto di sintetizzazione delle parti scritte e con l’inserimento nell’uso comune della comunicazione linguistica dei cosiddetti audio: li conosciamo tutti, messaggi vocali che sfruttano il registratore integrato nel dispositivo per inviare direttamente il suon o della voce senza neppure dover scrivere.
La sintetizzazione avviene in qualsiasi parte del web. Se siete registrati (o, come si dice nel tecno-linguaggio, “loggati”) ad un qualsiasi social network sicuramente vi sarà richiesto nel processo di configurazione del proprio account, oltre ad un inserimento della foto profilo e di un nome (il cosiddetto nickname o username), anche quella che viene chiamata bio. La bio, che è l’abbreviazione di biography (e non di biografia), è una descrizione di sé in meno di 200 caratteri (per Instagram sono precisamente 150). Spesso, per risparmiare spazio si mettono le informazioni più importanti riassunte in due parole per riga, con un totale di tre righe, e accompagnate da emoji (per esempio: liceo classico [emoji dei libri], scrittore [emoji della penna], filmaker [emoji della cinepresa]). Perché nomino questa bio? Perché oltre all’apporto che da a questa standardizzazione della continua sintetizzazione spasmodica ed estrema della scrittura, porta anche ad una forma di “spersonalizzazione”: si identifica la persona e spesso si fonda un primo giudizio su una descrizione di sé fatta in poco più di otto parole. Si porta la persona ad essere categorizzata, catalogata: (usando il precedente esempio) «sei uno “studente, filmaker, scrittore”», è su queste tre informazioni che le persone basano la loro prima opinione di te. Siamo diventati entomologhi e allo stesso tempo insetti catalogati, siamo sia colui che inserisce nella teca, sia l’animale inserito in essa. Il ragionamento, complementare al linguaggio, altro non può fare che standardizzarsi, diventare schiavo della catalogazione e diventare subordinato al pensiero basato sui compartimenti stagni. Si assolutizza la categoria, estraniandola dal particolare: tu non sei più individuo x, sei semplicemente membro x dell’insieme Y. Anonimo membro di un insieme in cui tutti i membri sono identici.
Avete mai letto una notizia di giornale da una pagina social? Parte dell’articolo (brevissima parte si intende) viene messa nella descrizione del post, mentre nel post vero e proprio v’è solo il titolo con l’immagine. La maggior parte delle persone durante lo scrolling[4] si limita a guardare l’immagine e a mettere like; pochissime sono le persone che leggono le descrizioni dei post, specialmente se lunghe[5]. Ciò vuol dire che l’informazione, per le poche persone che seguono pagine d’informazione e di cronaca, si limita a leggere il titolo visibile dal post, a mettere mi piace, magari salvare il post nel cloud dell’account e a continuare lo scrolling.
Questa comunicazione così ridotta all’osso, spogliata di qualsiasi cosa che sia superfluo, arrivando a spogliarla anche del “non strettamente necessario” – per così dire –, contribuisce a ridurre in modo impressionante la soglia dell’attenzione, nonché porta ad una visione delle cose secondo la quale è valida la proporzione: [poco : bene = tanto : male]. Spiegato meglio intendevo dire che ciò innesta nelle persone la sensazione che quello che può essere ridotto deve essere ridotto, giacché è bene la brevità e male l’essere prolissi.
Lo standard viene quindi assimilato dalla società come qualcosa di normale, direi anzi che viene assimilato in modo così naturale che facciamo fatica ad accorgerci di averlo assimilato.
Tutte le conversazioni si muovono sul piano virtuale, sono sospese in aria nel tecno-verso. Questa sospensione in aria delle conversazioni, sposta a volte intere relazioni online. Aumentano a livello vertiginoso le persone che si conoscono online e che hanno un rapporto che si consuma tutto nelle chat e nella virtualità dell’universo tecno-digitale. Tutto il rapporto, che alla base ha la conversazione, nel momento in cui essa si sposta dalla presenza fisica alla presenza virtuale, non può fare a meno di uniformarsi e sottomettersi alla virtualizzazione imposta dalla modalità di comunicazione. La presenza fisica è ormai diventata quasi una mitologia, una leggenda metropolitana. Si presenta ancora quasi solamente sottoforma di reminescenza dei tempi andati.
Le chiamate stesse stanno perdendo il loro dominio nel mondo virtuale, ormai anch’esse sono un tipo di relazione troppo fisico, oso dire addirittura che sono un tipo di relazione troppo vero (ma questo è un mio giudizio personale completamente avulso dal ragionamento che sto cercando di fare). La fisicità, un tempo base del rapporto, sta abbandonando il campo relazionale. Sarà per un fatto non solo psicologico, ma anche pratico: è certamente più facile scrivere un messaggio che chiamare o incontrarsi.; tuttavia questo abbandono della dimensione fisica cambia totalmente la visione dei rapporti nella società contemporanea. Prima il rapporto derivava dall’incontro, dal piacere dello stare assieme; ora il rapporto deriva dalla possibilità di messaggiare, di connettersi virtualmente in un mondo che potrebbe benissimo essere un’illusione. I rapporti, cosa reale e fondamento del mondo, si stanno astraendo e separando dal reale e dal tangibile e stanno entrando a far parte della dimensione invisibile del tecnoverso digitale dove tutto è possibile, anche l’impossibile. Stanno dunque diventando indipendenti dalla realtà, fisica e non, delle cose; si stanno astraendo, quasi diventano metafisica. Andando oltre non devono più obbedire alle leggi del mondo fisico, giacché non fanno più parte di esso. E dunque ci ritroviamo tutti connessi eppure fisicamente isolati. Questa scissione che porta ad una frammentazione connessa della società ha forti ripercussioni sul mondo.
“Make the man great again!” – la dimensione depressiva e violenta del web
Su internet e nel mondo popola la tristezza depressiva, il cinismo estremo ed un’aggressività quasi incontenibile che esplode in post di attacchi, in descrizioni offensive ed in litigi violenti nei commenti. La competizione è esaltata: o hai ragione o hai torto, o sei vincitore o vinto, o sopravvissuto o morto. Stiamo andando avanti verso un’estremizzazione radicale dei concetti, il mondo si sta automatizzando e questa automatizzazione porta ad una visione binaria delle cose: 0/1, vinto/vincitore, ragione/torto, bianco/nero.
Nel 2016, durante la sua campagna elettorale, Donald Trump usò come slogan la celeberrima frase “Make america great again!” un motto che credo si adatti benissimo all’onda di competizione radicale che spopola nel mondo contemporaneo. “Make the man great again!” eccolo lo slogan del XXI secolo. Derivante da una nostalgia dilagante e sempre più sentita della grandezza dell’uomo, che sembra essersi perduta negli anni. Si ha sempre più l’impressione di una decadenza irreversibile, di una caduta perpetua. La società cade e si arrende alla caduta, ignorando quale sia il vero problema.
Un’altra frase che credo si adatti perfettamente alla situazione in cui ci troviamo è il monologo finale del film La Haine (L’Odio) di Matthieu Kassovitz; il monologo viene recitato in voice over da uno dei tre protagonisti del film, Said, esattamente prima della fine della pellicola:
«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Man mano che cadendo passa da un piano all'altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete: "Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene." Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.»
Questa caduta continua viene osservata e accettata come qualcosa di irrimediabile; un fatale destino incontrovertibile. Ciò si ripercuote inevitabilmente sul web e nel mondo reale con una rabbia esistenziale, spesso considerata inspiegabile.
Sul web regna una forma illusoria di ordine, dettata dalle leggi univoche dell’informatica, ma che in realtà, come può, esplode in un furioso caos. La politica ha assunto la forma della guerra di insulti, sia tra personaggi politici che si insultano su twitter e i vari social, sia tra gli elettori che nei commenti altro non fanno che insultare la controparte e condurre dibattiti vacui a suon di insulti; l’odio e l’incitazione alla violenza vengono facilitate dall’anonimato che il web offre; la pornografia viene diffusa in modo sempre più libero e depravato su gruppi anonimi di telegram e altri social dove la politica sulla pornografia ha la guardia abbassata; il controllo sociologico e psicologico delle masse attraverso i media viene addirittura aiutato fino ad entrare a far parte di ogni aspetto delle nostre vite; la privacy non esiste più, se non quella illusoria.
Film, libri e videogiochi mostrano un mondo in cui si compete, in cui l’uomo deve lottare contro i suoi stessi simili per arrivare anche solo ad un discreto successo. Dai giochi arcade gratuiti per mobile a quelli più complessi e costosi per pc e console la trama è sempre la stessa, se ridotta all’osso: il giocatore deve lottare contro tutto il possibile e vincere per finire il gioco e ottenere la vittoria. Nietzsche sarebbe fiero del mondo in cui viviamo: la legge della giungla, seppur ben mascherata, ha ottenuto la posizione di predominio. La solidarietà non esiste più, perché il tuo bene è il mio male; ciò che viene dato a te non viene dato a me. La competizione esiste in ogni campo, dal videogioco che ha il solo scopo ludico, al film che deve intrattenere, alle relazioni nelle quali è mutata totalmente la visione dell’amore. Anche lì giace la competizione, la competizione di chi ha la relazione migliore, la competizione all’interno della stessa relazione su chi è il miglior partner, la relazione contro il mondo su chi è più felice all’interno del proprio rapporto ecc.
L’uomo non deve più dominare sul mondo, che ormai ha già dominato da tempo e che ha anche distrutto con fiero successo, l’uomo ora deve dominare sull’uomo. L’uguaglianza ormai è stata ridotta a buonismo, anche a causa proprio del buonismo e del benpensantismo di sinistra che hanno ridotto l’uguaglianza a vacuità. Il lavoro non è più un fattore di identificazione di massa, bensì un campo di battaglia dove la promozione e l’aumento dev’essere il mio e non il tuo, un posto dove se non sono il migliore rischio di essere tagliato fuori e dunque devo essere il migliore per essere salariato.
I nostri sensi vengono iper-stimolati da immagini, segnali, simboli, pubblicità ecc. C’è una strumentalizzazione utilitaristica di ogni cosa, dalla guerra ai diritti, dall’erotismo alla castità, dalla religione all’ateismo. Ogni cosa viene usata per propaganda e pubblicità portando ad una ultra-stimolazione e ad una confusione caotica. I confini tra una parte e l’altra sono sempre più labili e tuttavia, fra le varie parti, non v’è alcuna via di mezzo, o sei dentro o fuori, o sei con me o contro di me.
C’è un malcontento dato dal decadimento del maschilismo e dall’ascesa del femminismo che si sfoga nella violenza e nell’inneggio allo stupro, alla subordinazione e al conservatorismo estremo. Il maschio tradizionalista e retrogrado, davanti all’ascesa di una nuova visione paritaria ed equanime dei generi, irritato dalla decadenza del maschio, che ora è considerato dai maschilisti come il “genere odiato”, ripiega nel vittimismo e nell’identificazione estrema di genere: maschio, forte, padrone e dominatore. Ecco allora che la violenza e l’odio hanno uno dei loro fulcri alimentatori: il vittimismo maschilista.
Il malcontento politico si sfoga sui social dove il pensiero critico e il razionalismo vengono brutalmente annientati dal nonsense irrazionalista e oscurantista tipico del confluire di troppi pensieri caotici e opposti in un unico luogo.
L’erotismo e il sessismo nel tecnoverso digitale – ma non solo – trovano un campo coltivabile su cui crescere, un luogo sulle quali mettere radici. Ovunque veniamo stimolati dalla pornografia sempre più esplicita. Numerose sono le pagine social che ricorrono esplicitamente alla pornografia per accumulare follower o per sponsorizzare i cosiddetti “link in bio” (canali di telegram dove si promettono soldi facili e pornografia assoluta, ma dove invece si esalta la ludopatia). Aumentano le prostitute online: giovani ragazze che inviano loro foto pornografiche in cambio di una registrazione a siti di incontri occasionali. Quella che nel mondo fisico passa sempre più in osservata, ovvero l’oggettificazione della donna, trova nel web un posto di tutto rispetto e sotto i riflettori: storie, post e commenti sono sempre più evidenti sui social. La pornografia ormai si riduce sempre di più ad ultra-erotismo super-stimolante e alla visione dell’immagine femminile come oggetto schiavo del piacere.
La dimensione sessuale, che man mano si libera dei tabù sociali, si uniforma sempre più nell’ultra-pornografia ed ultra-erotismo che portano sempre di più ad una perenne stimolazione dell’eccitazione sessuale.
Si potrebbe quasi dire che esiste una sorta di morale del web e che questa morale sia estremamente velleitaria. Nel web sembra sia tutto concesso, anche le più assurde perversioni che invece sono etichettate negativamente dalla società, purché ciò rimanga confinato nel web, in questa grande scatola nera. Sembra che si possa far tutto purché sia valido un accordo implicito fra abitanti del tecnoverso virtuale: ciò che accade nel web rimane nel web.
Basta dare uno sguardo al mondo online che non si limiti alla superfice, alle prime pagine, ai primi commenti e ai primi siti, per osservare ciò che dico: prostituzione normalizzata, pornografia strumentalizzata, perversioni d’ogni genere sfogate in chat anonime, violenza ed aggressività estrema manifestate in commenti e in gruppi di sfogo collettivo, rivendicazione della legge della giungla ecc.
Questo mondo virtuale sembra, alla fin fine, essere governato da istinti primordiali, dai semplici istinti. E semplice sembra esserne anche la spiegazione: la razionalità, i sentimenti, le emozioni, sono cose troppo complesse e troppo lente per il mondo del web che si muove a velocità assurde; d’altro canto, invece, gli istinti, le passioni, l’irrazionalità, le sensazioni, sono tutte cose che possono essere stimolate in fretta e con frequenza: ecco quindi che il tecnoverso trova nutrimento e concime in quest’ultime categorie piuttosto che nelle prime, le quali, a causa della loro complessità, riescono a fatica ad entrare in questa realtà.
“Make the man great again”, cosa indica, dunque, quell’“man”? Di certo non è l’uomo illuminista, non è l’uomo razionale o critico; no, è l’uomo primordiale, governato dagli istinti a dalle passioni, che si afferma nella competizione con la forza (che, attenzione, non vuol dire necessariamente “forza fisica”), che sguazza in una palude di profonda irrazionalità e a-critica. Questo è quell’uomo, quell’man da rendere grande di nuovo.
“Make the man great again!”, “Rendiamo di nuovo grande l’uomo!”, rendiamolo primordiale, rendiamolo istintivo, rendiamolo passionale, rendiamolo irrazionale, rendiamolo animale!
“Make the man great again!”, “Make the human animal great again!”, “Make the animal great again!”
Eccolo lo slogan effettivo di questo secolo, del secolo della decadenza: “Rendiamo di nuovo grande l’animale!”
Note
[1] Termine utilizzato da F. «Bifo» Berardi in Futrabilità, NERO, 2020, p.9 [2] Termine utilizzato da F. «Bifo» Berardi in Futrabilità, NERO, 2020 , p. 125. [3] Incipit de Il contratto sociale di J.J. Rosseau. [4] Scrolling In informatica, lo scorrimento in senso orizzontale o verticale di un testo o di un’immagine sullo schermo di un calcolatore in modo tale che questi scompaiano in un lato dello schermo e nuovi dati appaiano dal lato opposto. (definizione dell’Enciclopedia Treccani). Più precisamente nell’ambito del social network è l’atto di scorrere i post sullo schermo di modo che quelli già visti scompaiano da un lato e quelli ancora da vedere appaiano dall’altro. [5] “[…] Secondo alcuni studi, la lunghezza migliore per una didascalia Instagram è inferiore a 125 caratteri per le pubblicità, mentre per i post social si può arrivare a 150. […]” (estratto di un articolo di common.it dal titolo Lunghezza dei testi sui social network: una guida).