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  • Immagine del redattoreLeonardo Apollonio

Arte e Nichilismo: l’Estetica del Mastodontico

Aggiornamento: 27 set

Abstract


Non riusciamo a esprimerci. Non riusciamo forse neppure ad avere qualcosa per la quale esprimerci. Forse tutto ciò nasce anche da un'educazione alla sensibilità sbagliata o diversa. L'Arte è cambiata ormai, come è giusto che faccia per raccontare al meglio la propria epoca. Ma come è cambiata l'arte? Noi lo sappiamo? Ce ne siamo resi conto? Ed è cambiata davvero in meglio? Si è davvero evoluta? Tutte domande che richiedono una risposta, un'analisi. Quello che l'autore vuole spiegare in questo articolo è come una splendida parte dell'arte che raccontava la bellezza del poco e del normale sia stata spazzata via da quella che chi scrive chiama la bellezza del mastodontico. Attraverso un'analisi storica e un'analisi estetica l'autore vuole evidenziare come l'arte del XXI sec. sia forse una delle possibili fonti di un nichilismo e di una incomunicabilità che ci pervade in quest'epoca.


“Tu lo sai cosa diceva Enzensberger?” - Cinema, arte e nichilismo


Venne chiamata “nausea” da Jean Paul Sartre. Ora non ha un nome.


“M’è accaduto qualcosa, non posso più dubitarne. È sorta in me come una malattia, non come una certezza ordinaria, non come un’evidenza. S’è insinuata subdolamente, a poco a poco; mi son sentito un po’ strano, un po’ impacciato, ecco tutto. Una volta installata non s’è più mossa, è rimasta cheta, ed io ho potuto persuadermi che non avevo nulla, ch’era un falso allarme. Ma ecco che ora si espande.” (J. P. Sartre, 2014)

Benvenuti nel mondo dell’incomunicabilità dove tutto è detto e nulla lo è. Vi sono vari paradossi alla radice di questo problema, tanti che tutti insieme formano un paradosso “collettivo”: tutto è tanto paradossale che il paradosso finisce per essere normale e il normale paradossale.

Friedrich Nietzsche ne parlava già tempo fa, chiamandolo nichilismo[1]. Ma noi abbiamo eluso il nichilismo e lo abbiamo completato, giacché il primo è un semplice decadimento dei valori supremi. Ma dio è stato ucciso tanto tempo fa dallo scientismo e dal nuovo estremismo ecclesiastico che continua a nutrire in sé stesso il seme della sua dispersione. Il nulla del nichilismo ha dovuto trovare un nuovo concime, un posto degno del nulla. Lo ha trovato nel legame, nel rapporto sociale, nella comunicazione.

Rod Serling con il suo aforisma ha appoggiato quello che Enzensberger sosteneva sulla televisione: la televisione è una scatola vuota, la televisione è il nulla; questo pensava lo scrittore tedesco e questo a suo modo fa trapelare Rod Serling quando dice:


“È difficile produrre un documentario televisivo che sia insieme incisivo e approfondito quando ogni dodici minuti viene interrotto da dodici coniglietti ballerini che decantano una carta igienica.” (Rod Serling, n.d.)


Se ciò che Enzensberger sostiene è vero, Nietzsche era il massimo profeta del futuro. Se la televisione trasmette il nulla allora il nichilismo ha preso il posto fondamentale della nostra vita. Allora su Times Square, sul cellulare ecc. noi non vediamo altro che nulla. E se è davvero così, c’è un guaio ancora più grande: a noi piace vedere il nulla. E se ci piace il nulla come può piacerci ciò che ha valore?

La prima domanda, la prima domanda da porsi sull’incomunicabilità, sul nichilismo che ne è la fonte, è: e se Enzensberger aveva ragione? Allora il nulla è il nostro valore e contiamo gli attimi in nulla, o forse tutto il resto ha perso valore e dunque nulla, nemmeno il nulla stesso, ha più valore.

La televisione ci circonda, ma la televisione è nulla? La televisione più che nulla è propedeutica al nulla, giacché come può qualcosa che fa sentire emozioni, seppure incredibilmente semplici, essere nulla? La televisione è qualcosa di molto prossimo al nulla che viene interrotto dal nulla (la pubblicità). La televisione è ciò per il semplice fatto che la televisione è un oggetto massivo e il massivo deve sottomettersi all’omologazione, alla semplificazione, alla uniformazione. Ciò che è massivo ha una semplice esigenza: coinvolgere il più vasto numero di persone possibili. Come si coinvolge il più grande numero di persone possibili? Cercando di semplificare queste persone, questi x diversi l’uno dall’altro, in omonimi x dell’insieme X. Così basterà fare una cosa per un x perché tutti gli altri x siano allo stesso modo interessati. Ecco l’origine dell’omologazione.

Quello che Heinrich Böll scriveva in “Opinioni di un Clown” (Böll & Pandolfi, 2016) lo considero particolarmente, più che un racconto ed una critica sociale all’”opulenta società della Germania occidentale, che sembra aver perso ogni valore” (come scrive l’editore Mondadori), un saggio d’estetica. Il senso del particolare, di cui il cattolico Zupfner manca, e del quale invece il clown protagonista Schnier fa tesoro credo sia forse il dettaglio più importante del libro.

Da quando negli anni ’80 il liberalismo diffuso da Regan e Tatcher provocò il susseguente americanismo dilagante e da quando Andy Warhol con la nascita e della Pop-Art negli anni ’60 hanno portato il nulla nell’arte si è andato sempre più a perdere esattamente quel senso del particolare di cui Böll scrisse. Parlando di estetica si potrebbe notare subito come il tipo di bellezza a cui facciamo riferimento, non è la piccola bellezza fatta di poco, come lo era ai tempi della Nouvelle Vague in cui i registi dovevano fare arte genuina con quasi nulla, bensì il senso di arte che abbiamo è un’arte più mastodontica, la cui origine si può a mio parere rintracciare nella diffusione del cinema commerciale di Hollywood con i suoi kolossal.

L’estetica che abbiamo e che la televisione contribuisce ad insegnarci è l’estetica del mastodontico, l’estetica dell’epico. Da quando la Pop-Art ha cominciato a dilagare, la pubblicità è diventata strumento di arte. Era la grandezza, la spettacolarità a fare effetto. Lo scopo di Warhol coincideva esattamente la conseguenza della televisione: la ripetizione continua di immagini affinché ciascuna immagine perdesse significato. D’altronde Warhol espresse alla perfezione il concetto di questo tipo di bellezza mastodontica a cui mi riferisco nel suo libro The Philosophy Of Andy Warhol: From A to B and Back Again:


Originale “Some kind of beauty dwarfs you and makes you feel like an ant next to it. I was once in Mussolini Stadium with all the statues and they were so much bigger than life and I felt just like an ant. I was painting a beauty this afternoon and my paint caught a little bug. I tried to get the paint off the bug and I kept trying until I killed the bug on the beauty's lip. So there was this bug, that could have been a beauty, left on somebody's Up. That's the way I felt in Mussolini Stadium. Like a bug.” (Warhol, 2014)
Traduzione “Un certo tipo di bellezza ti rende nano e ti fa sentire una formica al suo fianco. Una volta sono stato allo stadio Mussolini con tutte le statue, erano così grandi che mi sono sentito come una formica. Oggi pomeriggio stavo dipingendo una bellezza e la mia vernice ha preso un piccolo insetto. Ho cercato di togliere la vernice dall'insetto e ho continuato a provare finché non ho ucciso l'insetto sul labbro della bellezza. Quindi c'era questo insetto, che avrebbe potuto essere una bellezza, lasciato sul naso di qualcuno. È così che mi sono sentito allo Stadio Mussolini. Come un insetto.” (Warhol, 2014)

Nel mondo contemporaneo il senso di bellezza che si ha è simile quello preromantico: noi non cerchiamo la bellezza come cosa in sé, come espressione d’un’emozione, noi cerchiamo una bellezza che sia oggettivamente riconosciuta, una bellezza impetuosa. Questo tipo di bellezza americana sembra rifarsi nella ricerca del bello allo Sturm und Drang, tempesta e impeto: devi essere un nano di fronte alla grandezza della bellezza. Eppure la bellezza è vuota, perché tutta la bellezza è mastodontica e quando tutto è mastodontico ogni cosa deve essere ancora più mastodontica della precedente.

Se ci si pensa bene, nessuno, meglio di Andy Warhol poteva far nascere la Pop-Art. In Andy Warhol è ancora presente l’estetica del particolare che aveva avuto origine nel neo-realismo italiano e poi aveva ottenuto la sublimazione intellettualizzata all’interno della Nouvelle-Vague francese. Le lattine di fagioli Campbell riescono ancora ad essere un qualcosa di normale e comune, ad avere quella natura comune che gli impedisce di essere una bellezza chiara, palese, bensì qualcosa di scoperto dall’autore, dall’artista; tuttavia il loro utilizzo nel dipinto si manifesta già simpatizzante con questo nuovo tipo di bellezza mastodontica: grandi riproduzioni ripetute tante volte, in serie. Diventano dunque, da qualcosa di comune la cui bellezza va scoperta, qualcosa di mastodontico la cui bellezza è palese, impetuosa.

La bellezza del comune non riesce più ad attecchire, giacché quest’ultimo tipo di bellezza è una bellezza che va scoperta e come ogni cosa da scoprire bisogna essere educati nella ricerca. Dunque una volta che il pubblico non è abituato alla ricerca della bellezza bisogna far sì che la bellezza gli venga mostrata in modo evidente.

Ma se tutta l’arte deve essere mastodontica, se tutta la bellezza per essere bellezza deve essere impetuosa e siamo sottoposti all’impeto in continuazione, non ci appare forse tutto come impeto? E se siamo abituati a percepire l’impeto costantemente l’impeto non perde forse il suo significato? E se così è, se l’impeto troppo ripetuto smette di essere impeto, allora cos’è? E’ forse nulla? Sì. E’ nulla.

Allora la televisione trasmette il nulla.

Proseguendo oltre, una successiva ripercussione di questa bellezza, così da me chiamata “mastodontica”, è sicuramente il confronto continuo e ripetuto con la vita dello spettatore. Con i movimenti cinematografici europei del secondo dopo guerra, come il sopracitato Neo-Realismo italiano e la Nouvelle Vague francese, ma anche con l’uscita del Manifesto di Oberhausen che diede inizio al nuovo cinema tedesco, si vedevano rappresentati sul grande schermo episodi di vita normale e poveri. Basti pensare a film come Ossessione (Luchino Visconti, 1943), Ladri di Biciclette (Vittorio De Sica, 1948), Jules et Jim (François Truffaut, 1962), I Quattrocento Colpi (François Truffaut, 1959), Les Carabiniers (Jean Luc Godard, 1963), Fino all’Ultimo Respiro (Jean Luc Godard, 1960) oppure anche Il Cielo Sopra Berlino (Wim Wenders, 1987). Specialmente in quest’ultimo caso è evidente la potenza della normalità, della bellezza del particolare di cui Schnier è innamorato. In questo film la potenza della normalità, della bellezza che si nasconde nel povero, nel comune e che va scovata con una particolare educazione alla sensibilità, è così potente da far innamorare un angelo d’una povera artista circense a tal punto da fargli rinunciare alla sua divinità per far parte anche lui di quella così splendida normalità.

Tuttavia se con il cinema indipendente americano e con il cinema d’autore europeo si riesce a far luce sulla normalità, il cinema hollywoodiano con i suoi kolossal e con i film da botteghino continua a convincere il grande pubblico che la bellezza risiede nella spettacolarità e che la normalità è noiosa. Così, uno spettatore medio, abituato alla continua uguaglianza spettacolarità = bellezza sicuramente troverà la sua vita e la vita di chi lo circonda insignificanti perché normali. Ed ecco che il nichilismo attecchisce. Perché abituati al mastodontico non cogliamo il significato del normale e del poco.

Se il nichilismo dunque è riuscito a pervadere la televisione sottoforma di ripetizione del mastodontico, esattamente allo stesso modo in cui quella nausea di cui Sartre ci narra nel suo libro, ovvero cheta, immobile abbastanza da non farsi notare, da permetterci d’autoconvincerci che il nostro nichilismo è frutto d’una nostra stessa illusione, allora il nichilismo ha pervaso le nostre esistenze.

Peraltro a sostenere la gravità della situazione che il cinema e la corrente Pop-Art manifestano vi è anche il celebre filosofo americano Thomas Hibbs (Hibbs, 2000) e successivamente in una recensione di Mary P. Nichols d’un suo libro dal titolo Shows About Nothing Nihilism in Popular Culture from The Exorcist to Seinfeld, viene fatto notare come il nichilismo ha preso a dilagare all’interno dei media hollywoodiani:


Originale “Perhaps most disconcerting, however, another stage of nihilism that Hibbs detect in popular culture – nihilism as normal, when nihilism is “no longer wrestled with” but “becomes an unspoken assumption” (p.137)” (Nichols, 2001)
Traduzione “Forse la cosa più sconcertante, tuttavia, è un altro stadio del nichilismo che Hibbs individua nella cultura popolare: il nichilismo come normalità, quando il nichilismo "non è più combattuto" ma "diventa un assunto non detto” (p. 137).” (Nichols, 2001)

Se dunque il nichilismo è stato da noi accolto e se abbiamo smesso di combatterlo, siamo giunti al momento di dover fare lo stesso discorso che Antoine Roquetin faceva a sé stesso all’inizio del libro di Sartre. Se Nichols e Hibbs avessero ragione sarebbe incredibilmente grande il potere del nichilismo, giacché noi non riusciremmo neppure più a riconoscerlo come nichilismo, bensì lo considereremmo normalità. Quando qualcosa, qualsiasi cosa riesce a rientrare nell’uguaglianza x = normalità, allora noi smettiamo persino di accorgerci dell’esistenza di x; giacché non si presta attenzione alla normalità, perché, appunto è normalità.

Tuttavia mi sento di porre una domanda fondamentale: cosa v’è di più nichilistico che ritenere la normalità noiosa e non abbastanza bella da essere ritratta in arte? Non è forse l’apice del nichilismo considerare le nostre vite normali non abbastanza meritevoli d’essere rappresentate, ammirate e ricordate? E soprattutto non è nichilismo estremo, nichilismo che tocca il proprio apogeo (se d’apogeo si può parlare per il nichilismo) il momento in cui tutto questo fare nichilistico sopra evidenziato assume il nome di “normalità”?

Nella conclusione del suo libro sopranominato Hibbs asserisce qualcosa di fondamentale per la comprensione del moderno nichilismo dilagante in cui ci troviamo. Hibbs suggerisce che è insita e dilagante all’interno dei grandi prodotti artistici moderni una grossa autoreferenzialità che non permette dunque di vedere altro mondo cosciente al di fuori di quelle convenzioni che abbiamo costruito:


“Il problema più profondo della nostra cultura è questo: i film e le serie televisive più alla moda, più intelligenti e più umoristici sono costellati di riferimenti alla cultura pop stessa, come se non esistesse un mondo al di fuori di quella cultura. Questo è vero tanto nei film di Quentin Tarantino e nei film di Scream quanto in Seinfeld, X-Files e I Simpson. Se le opere d'arte non permettono quel tipo di autoconsapevolezza che suggerisce modi per trascendere il mondo che abbiamo creato, l'assurdità delle convenzioni, allora tutto ciò che ci rimane è un'autocoscienza impotente. Se tutto è artificio, senza uno scopo guida intelligibile, la nozione stessa di natura diventa inconcepibile e non c'è nulla di indipendente dalle convenzioni e dalle preferenze a cui possiamo appellarci.” (Hibbs, 2000, p. 182)

La presenza della Pop-Art non segna in toto il dominio nichilistico, in quanto alcuni artisti continuano a opporsi a esso, anche con gli stessi mezzi coloro che lo causano. Per esempio Banksy, se ci si presta attenzione, crea arte in un modo non troppo distante da Andy Warhol. Sebbene il secondo volesse privare di significato i soggetti dei suoi dipinti e l’altro invece vuole dargli significato, ambe due hanno una visione dell’arte all’interno della quale è la piccola cosa ad avere valore. Se Andy Warhol sceglie di rappresentare serigrafie giganti e ripetute con minime variazioni di Coca Cola o di lattine Campbell per svuotare di significato queste icone del consumismo, dall’altra parte Banksy con la sua arte cerca di andare in senso opposto, ma con gli stessi mezzi: scegliendo bambini con palloncini rappresentati in posti specifici cerca di rappresentare allegoricamente messaggi politici, culturali e sociali. Se da una parte troviamo l’espressione più alta del nichilismo dato dall’arte, dall’altra troviamo un tentativo di ritorno ad un significato artistico. Tuttavia è impressionante come da ambe due le parti i mezzi siano gli stessi. Dunque non sarebbe neppure giusto, né tantomeno veritiero sostenere, che tutta l’arte si è rassegnata al nichilismo.

Questa differenza di scopi tra i due artisti Pop totalmente opposti risulta particolarmente evidente nel momento in cui vengono confrontate le parole dei due autori, uno rassegnato e – perlomeno in flebile maniera – felice del nichilismo (forse inconsapevole di questo suo nome), l’altro cosciente di esso ma non rassegnato:


“Alcuni pensano che si dovrebbe avere di meglio a cui pensare che cercare di pensare a cose migliori. Ma l'istinto è ancora presente. La vita è ingiusta e il mondo è pieno di storpi, di morte e di subalternità…” (Bansky, 2001)
“Perché ero solito consumarla. Ho avuto l’abitudine di consumare lo stesso pranzo tutti i giorni, per vent’anni, la stessa cosa ripetutamente. Qualcuno mi disse che la mia vita mi ha dominato, e quest’idea mi piacque” (Sichel, 2018)

Sull’onda di questo attivismo artistico-politico che non vuole rassegnarsi al nichilismo che la Pop-Art ci infetta, Bansky trova l’appoggio di registi come Jim Jarmusch e Ken Loach e del loro cinema indipendente antiamericano e, specialmente per quanto riguarda il primo, della sua arte disillusa verso la politica reaganiana e verso il sogno americano. Tuttavia l’egemonia non la ha più l’arte indipendente, l’arte intellettuale, ma l’arte massiva, l’arte del consumo, l’arte del popolo, la Pop-Art (Popular Art, arte popolare). E’ questa l’arte che ha egemonia, che ha presa sul pubblico, ed è questa l’arte che manifesta lo stile di bellezza mastodontico. Questa è l’arte del nichilismo e l’arte del nichilismo è l’arte che sta riscuotendo più successo.

La questione, in conclusione, io credo sia una sola: Siamo sicuri che vogliamo che un tipo di arte vinca sull’altro? Siamo certi di volere che l’arte di Hollywood ci domini? Di quale arte abbiamo bisogno ora? L’arte di Stranger Than Paradise (Jim Jarmusch, 1984) e My Name Is Joe (Ken Loach, 1998) o l’arte mastodontica da moderno e instabile Sturm und Drang fatta di kolossal e di un’idea contagiante di nichilismo, l’arte secondo cui la bellezza risiede nel grande e solo nel grande, come per esempio l’arte del grande cinema americano di Hollywood?


Anni ’80 e l’americanismo: tra American Dream, deregulation e Pop-Art – L’inizio del vuoto


Alla fine degli anni ’70 l’Italia stava risorgendo da un periodo di crisi, dopo che il ’68 aveva fatto sentire tutte le sue conseguenze (nel bene e nel male) e dopo che in tutta l’Italia si era stati “soffocati dal peso del metallo” durante gli anni di piombo, tra conflitto politico-sociale e paura del terrorismo. Inoltre l’Italia, come tutto il resto d’Europa, stava risentendo della grande crisi che seguiva il boom economico degli anni ’50 e ’60, crisi iniziata con la decisione del presidente Nixon di porre fine al Bretton Woods che durante gli anni precedenti aveva favorito un mercato di scambi internazionali. L’Italia dunque agli inizi degli anni ’80 era in una ripresa da un periodo di crisi, proprio quando nacque l’astro nascente del neoliberismo americano con la politica di Reagan e Thatcher, con la loro deregulation e la loro trickle down economy. Fu così che l’America incominciò a riprendere le redini della ribalta e continuare a vestire i panni di pioniere della libertà. Tutto ciò contribuì, come anche sottolinea all’inizio del suo articolo Ralph H. Bowen, al rinvigorire di una egemonia culturale (e non) americana che “come altre egemonie culturali risiede su benessere e forza superiori” (Bowen, 1985). Peraltro, quasi a dimostrare ciò che Bowen ed io sosteniamo, nella medesima rivista francese (“L’imperialisme Culturel Américain?” 1985) v’è un articolo dal titolo “Cowboys. Europe and Smoke: Marlboro in the Saddle” di John G. Blair (Blair, 1985), che prende come esempio pratico di egemonia culturale la vendita di sigarette Marlboro ed il loro retaggio da cowboy americano per arrivare a mostrare come le vendite di sigarette Marlboro siano cresciute esponenzialmente in Francia dal 1967 al 1984 (proprio quando la Reaganomics stava mostrando i suoi frutti), sostenendo così in qualche modo di dimostrare praticamente una crescente egemonia culturale americana e del messaggio collegato a questo “artefatto culturale”:


Originale “Perhaps when a national preference for a certain type of tobacco yields to a competing imported type, one may be tempted to invoke 'cultural imperialism' of some sort.” (Blair, 1985)
Traduzione “Forse quando la preferenza nazionale per un certo tipo di tabacco cede a un tipo di tabacco importato concorrente, si può essere tentati di invocare una sorta di 'imperialismo culturale’”. (Blair, 1985)

Questi sono gli anni in cui il cosiddetto American Dream incomincia a diventare non più il sogno americano, ma il sogno internazionale con sede in America. Siamo in un periodo in cui l’Europa è divisa in due dal muro di Berlino e dalla guerra fredda che proprio in quegli anni, nella sua quinta fase di sviluppo, grazie alla politica reaganiana stava scatenando pressione sull’allora Unione Sovietica e sul clima dell’Europa. La situazione da questa parte del mondo sembrava offrire una scelta obbligata tra le due grandi nazioni satelliti: da una parte del muro c’era chi sventolava nella sua bandiera a stelle e strisce il sogno americano: “libertà, prosperità, felicità attraverso l’onesto lavoro del cittadino”. Dall’altra parte invece c’era Stalin e il comunismo; tutto poco dopo gli anni di piombo in cui il comunismo era ancora marchiato a fuoco con il nome delle Brigate Rosse e del delitto Moro e dopo la definitiva eliminazione dalla politica italiana del PC con la fine del compromesso storico.

Fu proprio in quegli anni di splendore del sogno americano che l’industria musicale si salvò dalla crisi grazie all’avvento di nuove tecnologie di registrazione e alla diffusione dei Compact-Disc (CD) che rimpiazzarono i vinili LP, più costosi ed ingombranti (Simon Frith, 2023) e le musicassette. D’altronde gli anni 80 furono il periodo che vide la musica rock salire alla ribalta nel panorama internazionale insieme a numerose figure di spicco americane, come Joan Baez e Bob Dylan (Lamia Maatougui, 2014). Questo è il periodo delle grandi stelle della musica mondiale come Micheal Jackson, Prince, Madonna e Withney Houston; nel 1982 venne rilasciato l’album di maggiore successo di Micheal Jackson, Thriller. E’ l’era anche di Bruce Springsteen e del suo hit-albumSurfing the Usa”, di “Back in Black” degli ACDC, dei Bon Jovi. Nel 1981 venne lanciato il canale televisivo MTV dove si esibirono i Queen, di cui Cindy Lauper divenne la star e che incominciò ad apparire anche in testi di canzoni come Money for Nothing dei Dire Straits (“Now look at them yo-yo's that's the way you do it/You play the guitar on the MTV”). Successivamente l’MTV divenne una cult-hit forse anche perché era uno dei pochi canali disponibili anche al di fuori degli Stati Uniti.

Questo periodo è la culla di quella che ora è a tutti gli effetti considerata Pop-Culture e con essa accrescono la loro popolarità vari correnti artistiche che ebbero origine l’una in opposizione all’altra: la pop-art e l’underground culture, quest’ultima nata proprio come antitesi al conformismo della cultura di massa e popolare (appunto Pop-Culture). Molto importante infatti, come detto nel paragrafo precedente (vd. supra), è il contributo di Andy Warhol che è in completa antitesi rispetto all’eredità lasciata da Duchamp, artista che diede vita al termine underground quando disse


Originale “Moi j'ai simplement dit: «Le grand bonhomme de demain se cachera. Ira sous terre.» En anglais c'est mieux qu'en français: «Will go underground».” (Michel Duchamp, 1965)
Traduzione “Ho semplicemente detto: «Il grande uomo di domani si nasconderà. Andrà sottoterra.» In inglese è meglio che in francese: «Will go underground».” (Michel Duchamp, 1965)

Duchamp anche contribuì in modo importantissimo alla successiva arte e anche all’arte di artisti contemporanei come il sopracitato Banksy.

Per altro, come suggerisce Carlo McCormick nel suo libro (Williams et al., 2004), l’arte undeground è nata sì in opposizione alla cultura pop, ma entro di essa, trovando come strumenti antitetici a quest’ultima gli stessi prodotti della stessa, arrivando ad essere considerata dallo stesso McCormick e dai suoi co-autori, surrealismo pop (basta anche solo guardare il titolo del libro: “Pop Surrealism: The rise of underground art”):


“Data l'evidenza di così tanti artisti visionari, iconoclasti, sovversivi e pittoricamente perversi che stanno scavando in una topografia simile di detriti culturali popolari, dopo tanti anni manca ancora una rubrica definitiva per questo genere. [...] Non riesco a sopportare l'accostamento con le parole più (ab)usate, come Surrealismo Pop. Eppure oggi non c'è niente di più vuoto dell'underground, uno spazio e un luogo già colonizzato da tempo” (Williams et al., 2004)

Questa cultura Underground fu solo una parte dell’eredità lasciata da Duchamp, ma di sicuro quella che ottenne più successo, forse anche per l’accostamento a grandi correnti come la BeatGeneration. Se infatti queste due correnti, insieme anche al movimento Hippy tentavano di opporsi al sistema americano non riuscirono mai a sovrastare la cultura Pop dominata dall’arte di Warhol ormai divenuta un simbolo, dalla musica Rock americana di quegli anni che faceva il giro del mondo, e dal nuovo cinema di Hollywood; rinato dopo film campioni d’incassi girati con investimenti limitati (film come Il Padrino, con sei milioni di budget, oppure l’Esorcista, con dodici milioni), e che rinacque commercialmente grazie ai film di George Lucas (da Star Wars al contributo a Indiana Jones) e Steven Spielberg che alla fine della Nuova Hollywood riuscì definitivamente a commercializzare il cinema americano e ad iniziare una vasta era di blockbuster dopo i successi del cult “Lo Squalo” (già nel 1975) e successivamente, in pieno periodo Reagan e Pop, nell’83, con “E.T. l’Extra Terrestre”. Nel cinema arrivò la generazione dei sequel, strategia prima adottata solo per il cinema di serie B, e iniziò l’era dei franchise che ora conosciamo tanto bene (come il franchise M.C.U. o quello di Fast and Furious). La politica neoliberista del commercio e del consumismo sfrenato adottata dal presidente ebbe le sue ripercussioni anche in questo campo ovviamente, portando il cinema americano a semplificarsi sempre più così da essere più commercializzabile, raggiungendo vette di penuria artistica e capacità imprenditoriale hollywoodiana con la diffusione dell’high concept, film che dovevano essere tanto semplici da poter essere ridotti in slogan, e con la normalizzazione dell’happy end.

Il grande American Dream negli anni 80 finì per trovare il mezzo di propaganda definitivo per essere esportato e consacrare la fedeltà dei paesi esteri all’ammirazione di questo sogno. Entrarono a far parte del cinema i grandi stereotipi che ancora sono presenti nel cinema americano per ovvie ragioni propagandistiche: netta divisione tra bene e male, buoni e cattivi, la perenne interpretazione del ruolo di buono da parte dell’americano, salvatore della propria patria e del mondo che lo circonda, e del ruolo di cattivo da parte del sovietico conquistatore del mondo assetato di potere.

E’ esattamente in questo momento, in questo clima di consumismo dato dalla politica liberista di Reagan e dalla propaganda consumistica dell’arte della cultura pop, dell’American Dream sventolato a stille e strisce e di storie strabilianti, di grandi stelle dello spettacolo a livello internazionale, che incomincia il declino verso il nichilismo, verso il vuoto. In questi anni, pieni di opulenza americana e di propaganda di grandi (falsi) ideali, che incominciamo a perdere quel senso di bellezza di cui si tratta nel precedente paragrafo, che incominciamo a perdere il senso delle cose e incominciamo ad acquisire universalmente il senso del commercio e del consumo, proprio quando arte, cinema, musica incominciano ad essere alla mercé di queste due cose. E’ forse per questo che l’altra grande eredità di Marcel Duchamp, a mio parere forse anche più preziosa dell’Underground, ovvero il ready-made (un tipo di arte che prevede l’utilizzo di oggetti d’uso comune che devono essere investiti di bellezza dall’abilità dell’artista, che dunque non è solo creatore, ma, come si diceva anche prima, ricercatore, scopritore della bellezza e dell’arte) è andata man mano decadendo nel tempo.


Apparire ed essere: tra virtuosismo e spettacolo, tra wagnerismi e

anti-wagnerismi – La quintessenza del nichilismo moderno


Cristoph Waltz, un pluripremiato attore che il grande pubblico conosce per i suoi celebri ruoli in film come Django Unchained (Quentin Tarantino, 2012) o Bastardi Senza Gloria (Quentin Tarantino, 2009), nel 2017 ha intrattenuto una conversazione con il pianista e direttore d’orchestra Daniel Borenboim in una serie intitolata “Parallels and Paradoxes” (Daniel Barenboim & Christoph Waltz, 2017), pubblicata sul canale Youtube del compositore. Nella seconda delle quattro parti che compongono la serie (dal titolo The Difference beetwen Stardom and Acting) Cristoph Waltz pronuncia una frase che riesce a catturare un concetto essenziale riguardo ciò che sto cercando di spiegare in questo articolo:


Originale “Look, in my profession, I always say, stardom and acting are two different jobs. And not everybody does both. Not all stars are real actors, they're stars. And they, they service that image. Very often actors want to be stars and neglect the acting.” (Daniel Barenboim & Christoph Waltz, 2017)
Traduzione “Guarda, nella mia professione dico sempre che la celebrità e la recitazione sono due lavori diversi. E non tutti fanno entrambi. Non tutte le star sono veri attori, sono star. E sono al servizio di quell'immagine. Molto spesso gli attori vogliono essere delle star e trascurano la recitazione.” (Daniel Barenboim & Christoph Waltz, 2017)

In questa frase l’attore esprime un concetto fondamentale per la comprensione della modernità: l’arte è spesso considerata la stessa cosa dello spettacolo. All’interno dello spettacolo è appunto lo spettacolo ha determinare la bellezza dell’opera. Detto in altre parole: la base per il successo nel mondo dello spettacolo è sbalordire e non entusiasmare o trasmettere. E’ la sorpresa, lo shock, l’adrenalina, che nello spettacolo fa furore. Come ho detto qualche pagina fa: per scoprire l’arte, per riuscire a gustare l’arte che non è posta dinnanzi allo spettatore in modo evidente, in modo inconfondibile, lo spettatore deve essere educato alla ricerca. Questa educazione, oltre che essere incompatibile con una diffusione massiva, richiede inoltre uno slancio superiore di intelletto. Quello che negli anni ’20/’30, appena dopo l’avvento del formalismo russo[2], teorizzò Sergej Michajlovič Ėjzenštejn all’interno del cinema muto fu esattamente questo: che lo spettatore non deve assumere passivamente ciò che il regista vuole mostrare, ma deve essere lui stesso autore d’un atto di intelletto che gli permette di analizzare criticamente il film (Polan, 1977) (Ėjzenštejn et al., 1992). Per fare un esempio pratico, una scena iconica è la scena finale del film Sciopero! (Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, 1925) nella quale durante lo sterminio repressivo degli scioperanti proletari da parte delle autorità sovietiche vengono mostrate scene di una mucca sgozzata. Sicuramente questa teoria del montaggio trova le proprie origini in una visione della rappresentazione epica brechtiana. Difatti anche Bertolt Brecht, e forse lui più di tutti mise in atto questa visione con la sua tecnica dell’alienazione, è d’accordo con il fatto che la visione dello spettatore non debba essere intellettualmente passiva, ma bensì attiva, di modo da essere anche critica. Lui stesso disse:


Originale “I give the incidents baldly so that the audience can think for itself. That's why I need a quick-witted audience that knows how to observe, and gets its enjoyment from setting its reason to work.” (Bertolt Brecht & John Willett, 1986)
Traduzione “Io do degli episodi in modo semplice, in modo che il pubblico possa pensare da solo. Per questo ho bisogno di un pubblico sveglio, che sappia osservare e che si diverta a mettere al lavoro la propria ragione.” (Bertolt Brecht & John Willett, 1986)

Dunque il problema della bellezza non spettacolare è proprio questo: è incompatibile con la massa in quanto si richiede non solo un’educazione alla bellezza stessa, ma persino un’esperienza critica della stessa opera e non un semplice coinvolgimento emotivo. Dunque la superficialità delle emozioni che lo spettacolo fornisce e la facilità che questa immediatezza porta con sé sono molto più compatibili con il gusto massivo. Da qui nasce quello che Cristoph Waltz afferma successivamente nella terza parte della serie con Borenboim (dal titolo Interpreting a Piece):


Originale “I lately observe more and more, that this world, that we live in, is more and more defined, or almost exclusively defined by quantities. Because quantities are something, everybody can understand. I don't need to know anything about music, or piano. If I see, that he does it really, really fast he must be fantastic. So virtuosity is easier quantifiable, than true insight into a text.” (Daniel Barenboim & Christoph Waltz, 2017)
Traduzione "Ultimamente osservo sempre di più che il mondo in cui viviamo è sempre più definito, o quasi, dalle quantità. Perché le quantità sono qualcosa che tutti possono capire. Non ho bisogno di sapere nulla di musica o di pianoforte. Se vedo che lo fa molto, molto velocemente, deve essere fantastico. Quindi il virtuosismo è più facilmente quantificabile rispetto alla vera comprensione di un testo." (Daniel Barenboim & Christoph Waltz, 2017)

Difatti Waltz concorda con ciò che ho appena espresso: la straordinarietà è più facilmente esperibile e gustabile della bellezza naturale. Il virtuosismo, non per forza bello, è sicuramente più paradossalmente bello della bellezza genuina di un notturno di Chopin. Sicuramente agli occhi di qualsiasi persona che non si intenda di musica un pianista pieno di velocità e accordi potenti come Rachmaninoff è sicuramente più sbalorditivamente bravo di Chopin. Allo stesso modo un adagio sarà sicuramente considerato più semplice, forse anche più banale di un allegro.

Un perfetto esempio pratico potrebbe risiedere proprio nella musica e proprio nel neoromanticismo dove l’impeto, e quindi lo sbalordimento, sono essenziali: l’impeto che Richard Wagner trasmette nelle sue sinfonie, come la sua più famosa: “La Cavalcata delle Valchirie”, o il “Tännhauser”, ed il suo titanismo musicale che contribuiva a trasporre musicalmente lo Sturm und Drang letterario, trasmettono subito enorme pathos. Sono sbalorditive, passionali, istintive, sono difatti anche, come sosteneva il suo amico Nietzsche, definibili come una rinascita della tragedia. Ma sono sicuramente in profonda antitesi con il sinfonismo di uno dei suoi contemporanei più illustri come Johannes Brahms, che invece preferisce adagiarsi su uno spirito riflessivo e meditativo nelle sue opere. Di sicuro ad un orecchio non educato musicalmente un adagio di Brahms risulterà più semplice, banale e forse anche meno bello di un’overture di Wagner. D’altronde, secondo me, un’antitesi più allegorica di quello che voglio trasmettere in questo paragrafo e in questo articolo dell’antitesi tra wagneristi e anti-wagneristi non esiste. E’ proprio nel titanismo impetuoso wagneriano tipico non solo dello stesso Wagner, ma anche di compositori come il celeberrimo Richard Strauss, autore di “Also Sprach Zarathustra” (Così Parlò Zarathustra), che si rivede l’epico e il tragico, l’impeto e la tempesta, è proprio lì che la bellezza, per così dire, “inconfutabile” giace, è lì che risiede quell’estetica del mastodontico. Mentre è negli adagi anti-wagneristi di Brahms o in sinfonie come “An der Schönen Blauen Donau” (“Sul Bel Danubio Blu”) che si vede una bellezza meno esplicita e più ricercata, più intellettuale. E’ in una sinfonia dedicata al Danubio che si cura di rappresentare anche l’ondeggio del fiume che il senso del particolare si manifesta.

D’altronde il virtuosismo dell’estetica del mastodontico e anche la stessa affondano la loro popolarità all’interno della contemporaneità in una delle grandi fallacie di quest’epoca, ovvero la seguente proporzione:


apparire : essere = non apparire : non essere


E’ su questa uguaglianza che si regge la popolarità indiscussa del virtuosismo e su cui si regge la causa del decadimento del senso del particolare. E’ quest’idea secondo la quale se qualcosa non appare immediatamente come x allora non è x. Dunque qualcosa che non appare subito ed immediatamente come arte, non è arte. Non si tiene conto di ciò che una cosa è in sé ma solo di cos’è all’apparenza. L’idea di noumeno e fenomeno kantiana è stata spazzata via, in quanto il fenomeno è coincidente assolutamente con il noumeno. La cosa in sé è esattamente come la cosa che appare; ma, inoltre, la cosa che appare fa apparire la sua essenza in modo indubitabile. Non è dubbia una cosa bella, lo si vede subito se è bella o meno. Il fenomeno è palese e coincidente con il noumeno. Ecco anche perché l’arte che va ricercata, quella che attinge al senso del particolare non riesce più a proliferare; perché in questo tipo di estetica, non è il noumeno in sé ad essere coincidente con un fenomeno, e né il fenomeno è palese. La cosa, nell’estetica del particolare, non deve necessariamente apparire bella e sicuramente non farlo oggettivamente agli occhi di tutti. Nell’arte del particolare la qualità del fenomeno è decisa dal singolo soggettivamente: siamo noi che vediamo nel dettaglio apparentemente insignificante una bellezza, che però non è nella cosa in sé, ma solo in quell’apparire, solo in quell’accidente momentaneo che, per qualche motivo, al soggetto risulta essere bello.

Il virtuosismo (e dunque l’estetica del mastodontico) fa appello all’immediatezza, immediatezza avallata sicuramente anche dalla suddetta uguaglianza; mentre il dettaglio (e dunque l’estetica del particolare) fa affidamento nella soggettività interpretativa d’un immediato accidentale che può o meno essere bello e può o meno esserlo solo in quel momento o nella cosa in sé.

Ma se noi vediamo solo ciò che ci appare come evidente e se l’arte, che ha funzione anche educativa, continua ad insegnarci che il bello è bello solo se è evidente, allora tutte le cose che non ci appaiono immediatamente come tali perdono la loro bellezza. Così il mondo attorno a noi diviene insignificante e privo di importanza, fatta eccezione per quelle cose che sono così enormemente belle da non poter essere contestata la loro bellezza.

Ecco come il nichilismo si è adagiato calmo e quieto nel mondo moderno: cambiando la nostra percezione di bellezza, cambiando la nostra comunicazione, che è divenuta comunicazione dell’assoluto (fenomeno = noumeno e fenomeno = oggettivamente interpretabile da tutti) in cui si presume che tutto sia visto ed interpretato allo stesso modo da tutti. Ecco la quintessenza del nichilismo moderno: la bellezza del mastodontico, l’assenza di relativismo; l’incomunicabilità.


Conclusioni: ci risolviamo tra immediatezza e semplicità – La nostra incomunicabilità


La domanda iniziale era: “viviamo nel mondo dell’incomunicabilità?”. La risposta sembra essere poi abbastanza chiara dopo questi paragrafi: sì, l’abbiamo creata apposta per noi.

La televisione trasmette il nulla, ed Enzensberger aveva ragione. Il fatto che trasmetta il nulla non vuol dire che trasmetta programmi che non abbiano gradevoli o appassionanti, ma solo che quella gradevolezza essendo così disperatamente massiva e commerciale diviene priva di valore, vacua, vuota, diviene nulla. Tutto deve essere esagerato, epico, mastodontico per essere immediatamente coinvolgente senza un intervento necessariamente attivo dell’intelletto; e così facendo, bombardando il pubblico continuamente di esagerazioni e epicità, la stessa esagerazione perde significato, perché il pubblico si abitua e serve allora un’esagerazione più esagerata ancora. La televisione risponde alla massa, la massa al commercio, il commercio alla semplicità. La televisione è annullata nel suo stesso scopo: dover vendere a tantissime persone sempre le stesse cose.

Dunque la televisione, a cui noi siamo esposti dalla più tenera età, ci educa al nulla con questa bellezza epica; ma non solo lei ci educa a questa continua esagerazione, a questo continuo coinvolgimento immediato, epico, mastodontico e virtuosistico. L’estetica usata nella contemporaneità è la bellezza nata negli anni ’80, quando nacque la pop-art, quando tutto divenne commercio e tutto divenne semplice e dunque immediato e quindi enormemente bello, tanto da essere evidente. Dagli anni ’80 l’abbiamo coltivata fin qui arrivando a sotterrare quella delicatezza che invece la bellezza del particolare offre. Servirebbe un equilibrio tra le due: l’epica risponde ad un necessario bisogno dell’uomo fin dai tempi più antichi, ma solo epica sotterra la bellezza delle piccole cose. Ed è stato così, la bellezza delle cose normali, quotidiane, dei dettagli insignificanti non esiste più, perché i dettagli e le cose normali sono, appunto, normali. Che bellezza c’è nel normale? Abbiamo perso la capacità di ricercare la bellezza, perché ci siamo educati a credere che la bellezza sia bella solo quando evidente. E dunque finisce tutto quanto per consumarsi lì: nell’immediatezza e nella semplicità.

Viviamo nell’epoca della massa in cui dunque tutto deve adattarsi ai suoi principi. Come si è detto nel primo paragrafo: “il massivo deve sottomettersi all’omologazione, alla semplificazione, alla uniformazione.” (p.1). Bisogna coinvolgere tanti individui e per far sì che tutti si interessino allo stesso modo alle cose c’è bisogno che tutti siano più semplici, così non bisogna rispondere a troppe differenze di esigenze. Bisogna che siano uguali e semplici in questa uguaglianza. Tuttavia, una volta semplificato il pubblico come è successo e come si è già detto in precedenza, bisogna adattare lo spettacolo e la vita a questo pubblico che si nutre di cose veloci e di cose semplici in un’esistenza che scorre veloce e piena di impegni Dunque le cose devono essere semplici e immediate. Come si fa a trasformare le cose, tutte le cose, in semplici e immediate? Si stabilisce che una cosa è come appare, si crea l’uguaglianza fenomeno = noumeno, apparire = essere; e poi si stabilisce che tutto ciò che appare deve essere immediatamente comprensibile, interpretabile, immediatamente esperibile anche. Si semplifica, perché il complesso non è immediato, e si assolutizza, perché il relativo neppure è immediato, in quanto va interpretato ed osservato nella sua relatività. Dunque si finisce per vivere nel mondo dell’assoluto, dell’apparenza che è sinonimo di essenza e dell’immediatezza.

Ed ecco che regna il nichilismo: tutto ciò che è normale non è bello e dunque non è importante, non è meritevole, in quanto non è immediatamente e indubitabilmente bello. Noi non siamo belli né meritevoli se non siamo immediatamente belli, se non lo siamo oltre il normale. Ed ecco che in un mondo dove il nichilismo ci pervade, regna l’incomunicabilità dell’immediato: tutto è in modo assoluto ed immediato come appare (e così nascono i fraintendimenti, le semplificazioni oltre necessità ed oltre possibilità).

Questa è la tag-line del nostro nichilismo: Tutto è in modo assoluto ed immediato come appare.


Note


[1] Qui inteso come assenza di significato, di valore, di contenuto. [2] Al quale peraltro prese parte aderendo alla teoria di Šklovskij


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