Leonardo Apollonio
Approccio al Concetto di Identità
Aggiornamento: 14 mag
Abstract:
Primo articolo della rubrica extra "estratti", la quale si occupa di riproporre sezioni interessanti ed estrapolabili di articoli particolarmente lunghi o complessi per rendere più fruibile una parte dell'articolo e del lavoro di ricerca, questo articolo estratto da "Identità Liquida: Transgender, Queer e Liquidità Baumiana" (Leonardo Apollonio; N°1; Anno 0; "Giovanili Trastullazioni Filosofiche") indaga come si forma l'identità di un individuo. Senza indagare il problema del genere. Questo articolo descrive sostanzialmente una fenomenologia dell'identità: come si forma, che cos'è e che funzione ha. Indaga l'essere funzione sociale dell'identità e l'essere un processo di formazione che l'individuo compie.
Originalmente essenziale per spiegare il tema del genere è una ricerca che, al di là del suo scopo originale, può essere interessante. Se si vuole leggere l'articolo completo in modo del tutto gratuito si può visitare la pagina "La Rivista" del nostro sito oppure scaricare il pdf dell'edizione completa dalla pagina "Edizioni Pdf"
Approccio al concetto di identità: egognosi e idolum aliorum
Guardando alla definizione che il dizionario Cambridge ci fornisce alla parola «identità» si fondono due tipi di identità. Difatti la definizione del dizionario è la seguente: The fact of being, or feeling that you are, a particular type of person, organization, etc.; the qualities that make a person, organization, etc. different from others[1]”[2]. Questa definizione definisce identità come conoscenza del sè, che si è qualcuno di particolare differente da altri. Tuttavia è opportuno fare una distinzione fra la cosiddetta «identità sociale» (“the part of the self-concept that derives from group membership”[3]) e «l’identità personale» (Someone’s personal identity in this sense consists of those properties she takes to “define her as a person” or “make her the person she is”, and which distinguish her from others”[4]). Occorre dunque capire cosa questa distinzione sta a significare e quale delle due intendiamo in questo articolo con il termine «identità».
Quando si parla di identità personale si intende la conoscenza del sé in quanto sé; tuttavia essa è esente da categorie prestabilite. Nel momento in cui ci definiamo attraverso categorie ci inseriamo all’interno di un database sociale, siamo sì noi, anche se non solo, a scegliere le categorie di questo socio-database in cui inserirci tuttavia non siamo noi a scegliere quali categorie sono presenti in esso. Quando si parla di conoscenza del sé, di questo tipo di identità, si parla della intima conoscenza del proprio animo, del proprio essere. La conoscenza personale ci fa «definire come persona» (come ci suggerisce l’enciclopedia filosofica della Stanford University) tuttavia la conoscenza del sé non è organizzata in base a categorie. Se si ponesse uno stato di solitudine, per esempio, senza alcuna relazione, non vi sarebbe alcuna necessità di avere un’identità definita, né sessualmente né professionalmente né altro. Lo scrittore è scrittore in quanto qualcuno lo ha distinto da «altro da scrittore» e ha sentito il bisogno di comprendere chi è scrittore e chi no. Il maschio è maschio nel momento in cui la società, nell’ambito relazionale, ha sentito la necessità di distinguerlo dalla donna. Se un uomo maschio fosse l’unico essere sulla terra non vi sarebbe per lui alcuna necessità di chiamarsi «maschio», ma solo di chiamarsi «me». L’uomo è uomo in quanto non è donna ed è uomo anche in quanto le persone che non sono lui guardano a lui come uomo nelle relazioni sociali. L’identità intesa come categorizzazione e definizione del sé attraverso etichette («uomo», «scrittore», «creativo» ecc.) elude dalla dimensione individuale dell’identità, e sbarca in una dimensione relazionale.
L’identità come autodefinizione di sé è conoscenza del sé. Tuttavia noi conosciamo noi stessi e ci definiamo e sentiamo il bisogno di definirci con etichette non perché è in noi questa necessità, ma perché ragioniamo sull’individuo come la società lo ragiona: attraverso etichette stabilite da relazioni sociali. Se si mettesse un neonato in una stanza da solo e lo facessimo crescere senza alcuna relazione sociale, in lui non vi sarebbe bisogno alcuno di conoscersi tramite etichette, ma solo di conoscersi e alla domanda “chi sei?” lui risponderebbe “sono me”. Non potrebbe neppure rispondere “io sono uomo” perché essa stessa è un’etichetta cui non è stato messo davanti. Se, ora lo si avesse fatto crescere solo insieme ad una donna, le uniche categorie in cui si inserirebbe sarebbero le differenze fisiche “sono me, con diversità da lei”, il concetto di uomo non esisterebbe ancora. Direbbe solo che osservandoli si noterebbe una diversità fisica. Ogni altra differenza sarebbe inclusa in quelle tre parole che sono perfetta definizione del sé: “io sono me.”
Questo tipo di conoscenza è una conoscenza indiscernibile e complessiva, è la conoscenza di una macrocategoria, quella dell’individualità, del «me», che non usa le categorie per definirsi ed analizzarsi, in quanto le categorie fungono da elemento semplificante e schematizzato di cui non v’è bisogno di usufruire nel momento in cui si conosce o si è nel processo di conoscenza del sé. Se si volesse dare un nome al tipo di identità che è questo si potrebbe chiamarla. Egognosi (composto di «ego», dal gr. «Io», e di «gnosis», dal gr. «conoscenza»).
Quello che in inglese è appellato con il pronome sostantivato «The Self»e che in italiano manca di una traduzione effettiva (se non «il sé») è un concetto generale che non fa uso di categorie, in quanto assoluto e dunque indiscernibile, giacché se l’assoluto illimitato fosse confinato all’interno di categorie perderebbe la sua caratteristica di assoluto. Noi, se da soli, non ci conosciamo attraverso le categorie per il semplice fatto che non dobbiamo inserire il concetto di «me» all’interno di una descrizione a parole. Quando le parole devono descrivere usano categorie collegate a concetti, come diceva appunto Ferdinand Saussure su significato e significante in “Corso di Linguistica Generale”, in cui enuncia che il significato (ovvero le parole, i fonemi) è come un contenitore in cui risiede il significante, che altro non è che il concetto. Quando dunque dobbiamo spiegare la nostra identità a qualcuno, che sia nell’atto di definirci, presentarci, scrivere di noi o anche quando qualcuno deve dire di noi è necessario parlare e nel parlare bisogna semplificare li «me», un significante troppo complesso per una parola, nelle categorie, nei contenitori, nei significati; affinché i significanti collegati ai significati usati nel descrivere il «me» possano essere compresi da un altro individuo. Se, perciò, non vi fosse la necessità di parlare, il «me» mai sarebbe categorizzato e semplificato e sarebbe, come nell’esempio del bambino solitario sopra esposto, definito nella semplice proposizione “Io sono me”.
Ci troviamo dunque davanti ad un evidente domanda: “Noi dunque ci conosciamo senza categorie?” E la risposta a questa domanda non può essere che negativa. Noi conosciamo anche il «me» attraverso le categorie. Tuttavia ciò non è in contraddizione con quello che è stato esposto fino a poco fa, è solo una conseguenza di un evento: l’egognosi è possibile solo nel caso in cui l’individuo non è inserito in un contesto nel quale è costretto a dover significare (nel senso di usare i contenitori del linguaggio, i significati) la propria identità per comunicarla a seconde parti. Nel momento in cui, invece, si è costretti a dover categorizzare attraverso il linguaggio la nostra identità ciò ha ripercussioni sul nostro approccio all’egognosi. Infatti, con la perpetua significazione del concetto del «me» l’individuo non potrà fare a meno di vedere anche lui il «me» come somma di categorie e dunque l’egognosi cadrà in disuso anche nella propria conoscenza del «me».
Ma se dunque questo tipo di identità personale che è l’egognosi è possibile solo nel caso in cui non sopraggiunga la società e il bisogno di significarla nel linguaggio, l’identità sociale cos’è? Si potrebbe chiamarla, nel tentativo di dare un nome auto-esplicativo a questo tipo di identità, idolum aliorum (dal lat. «idolum», in sens. fig. «idea», e «aliorum», nel sign. di «degli altri»). L’idolum aliorum altro non è che quella conoscenza del «me», di cui si è detto anche sopra, che, attraverso il linguaggio e la comunicazione, viene semplificata. Infatti, all’interno di una società per far sì che la nostra individualità venga esposta nelle relazioni sociali esponiamo l’identità al bisogno di essere descritta e semplificata per essere capita da altri che non possono conoscere il «me» di qualcuno altro da loro, in quanto lo strumento di conoscenza introspettivo per conoscere una persona così affondo lo ha solo l’individuo stesso nel momento in cui conosce se stesso (bisognerebbe leggere i pensieri, le passioni, i sentimenti ecc.). Inoltre all’interno della società non incorre solo il processo di significazione spiegato sopra, ma incorre anche la semplificazione tramite quel database sociale cui sopra si è fatto riferimento. L’individuo è analizzato secondo le categorie sociali di «lavoro», di «bellezza», di «simpatia», di «ricchezza», «classe», «successo», «origine», appunto «sesso» e «genere» ecc. E dunque, nel momento in cui il linguaggio agisce per significati nel processo di descrizione della nostra identità, esso si muove in questo processo usufruendo del socio-database di categorie che ogni ambiente socio-culturale possiede e dunque l’individuo perde quella totalità assoluta ed unitaria che poteva essere espressa nella proposizione “Io sono me”, perché il «me», non rientrando in una categoria del socio-database, non può significare nulla giacché non è riconosciuto come significato collegato ad un significante specifico identificabile nel database. Quindi, non risultando più come significato a sé quel «me» viene visto nella società come somma di significati, ciascuno collegato ad un significante riconosciuto nel socio-database. Dunque, la nostra identità, non è più l’egognosi unitaria di cui si parlava prima, ma diviene un idolum aliorum composto e scomponibile.
Come detto sopra, con l’arrivo dell’idolum aliorum, l’individuo, perpetuamente abituato a questo tipo di identità, trasforma l’egognosianch’essa in un idolum aliorum e decade facendo rimanere dunque solo l’identità sociale, solo l’idolum aliorum e facendo diventare noi non più una unità, ma una somma di elementi ciascuno fondamentale affinché la somma di questi rispecchi realmente ciò che in origine era quel «me», quell’egognosi.
Creazione dell’identità
L’identità, dunque, alla nascita ha un potenziale per essere un’identità egognotica tuttavia, nel momento in cui si fa ingresso nella società come essere pensante l’egognosidecade in favore dell’idolum aliorum. Infatti avvertiamo il bisogno d’un identità per prima cosa, o, se non per prima, in modo più esplicito e chiaro, nel momento in cui ci si trova a dover rispondere alla domanda “Tu chi sei?”. La prima risposta che il costrutto sociale e la nostra educazione ci insegnano di dare è il nostro nome. Tuttavia, con l’avanzare del tempo diviene sempre più chiaro all’individuo come il nome non è altro che una fonetizzazione del compito che precedentemente era adibito all’indice: indicare. In Uno, Nessuno e Centomila, nell’ultima parte del libro, v’è una frase che meglio d’ogni altra riesce, se capovolta leggermente ed analizzata, a spiegare questo principio e la funzione che il nome ha:
“[…] Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d'ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita […]”[5]
Se si capovolge e si analizza la frase si arriva a capire come il nome è il significato a cui è collegato il significante che è la nostra identità. E dunque il nome non è altro che quel dito che serve ad indicare l’individuo x con la bocca e non con l’indice. Quindi si capisce anche come la risposta alla domanda “Chi sei?” non può essere effettivamente “Io sono individuo x”, giacché il significante di individuo x non è spiegato nel nome più che nella proposizione “Io sono me”.
Dunque ci si muove alla ricerca di chi è questo «me» inspiegabile attraverso l’idolum aliorum e si procede verso una categorizzazione sociale dell’individuo (aspetto, lavoro, carattere, ecc.) riuscendo appunto a schematizzare il «me» fino ad arrivare a spiegarlo attraverso quelle variabili riconosciute all’interno del database sociale: all’interno della variabile lavoro, l’individuo x si posiziona come scrittore, all’interno della variabile altezza, si posiziona come alto, all’interno della variabile conoscenza, si posiziona come dotto; e già così l’identità di questo individuo x è definita come «uno scrittore alto e dotto». E così si va avanti fino a categorizzare ogni aspetto categorizzabile del sé.
Alcune ricerche spiegano, tuttavia, come l’individuo plasma la propria identità all’interno della società e sotto la continua influenza, non solo del dubbio che il “Chi sei’” instilla in lui, ma anche sotto l’influenza del giudizio sociale.
Testo originale
“We noted that individuals are motivated to present a positive self to influence how others see them in the hopes of attaining social validation of their claim to being (or becoming) a bona fide exemplar of the identity in question (DeRue & Ashford 2010). In short, others’ perceptions affect self-perceptions. The result ranges from a virtuous circle where iterations of enactment and social validation lead to greater internalization of the identity (i.e., to the identity taking root), to a vicious circle where social validation is denied.”[6]
Traduzione
Abbiamo notato che gli individui sono motivati a presentare un’immagine di sé positiva sotto l’influenza di come gli altri li vedono nella speranza di attrarre una validazione sociale del loro essere (o divenire) un esemplare autentico dell'identità in questione (DeRue & Ashford 2010). In breve, la percezione altrui influisce sull’auto-percezione. Il risultato varia da circolo virtuoso dove le iterazioni di promulgazione e validazione sociale portano a una più grande internalizzazione dell’identità (i.e., alla radice dell’identità), sino ad un circolo vizioso dove la validazione sociale è negata.
Dunque, durante la costruzione dell’idolum aliorum, l’effetto delle relazioni sociali e della società influisce non poco sulla suddetta costruzione. Proprio in quanto influisce, è impossibile l’affermazione di un egognosi che emancipi dalle categorie sociali la nostra visione dell’identità. La definizione che ci offre la sociopsicologa americana Marilynn Brewer è illuminante e estremamente esplicativa di questo concetto:
Testo originale
“Person-based social identities. This term is intended to refer to definitions of social identity that are located within the individual self-concept. In this usage, social identities are aspects of the self that have been particularly influenced by the fact of membership in specific social groups or categories and the shared socialization experiences that such membership implies.”[7]
Traduzione
L’identità sociale basata sull’individuo (Person-based). Questo termine si riferisce alla definizione di identità sociale che è localizzata all’interno dell’idea di sé individuale. In questo uso, le identità sociali sono aspetti del sé che sono stati particolarmente influenzati da ciò che appartenere a specifici gruppi sociali o categorie e che le esperienze di mutua socializzazione di tali appartenenze implica.
La stessa Brewer, tuttavia, nel medesimo articolo sopracitato, fa una distinzione specifica fra quella che chiama Relational Social Identities e quella che invece chiama, come su scritto, Person-Based Identity. La seconda, a differenza della prima, non indica una conoscenza del sé individuale, ma una conoscenza del sé in base alla funzione relazionale che ricopre all’interno delle relazioni sociali:
Testo originale
“Relational social identities. According to Thoits and Virshup (1997), role identities are also “me” identities in the sense that they are identifications of The Self as a certain kind of person. However, unlike person-based identities, role identities define the self in relation to others (Stryker, 1980). For this reason, Brewer and Gardner (1996) have argued that role identities are among a type of social identity that derives from interpersonal relationships within a larger group context.”[8]
Traduzione
L’identità socio-relazionale (Relational social identities). Secondo Thoits and Virshup (1997), le identità di ruolo sono sempre identità del “me” nel senso che sono identificazioni del sé di un certo tipo di persona. Tuttavia, differentemente dalle identità sociali basate sull’individuo (Person-based), le identità di ruolo definiscono il sé in relazione agli altri (Stryker, 1980). Per questo motivo, Brewer e Gardner (1996) hanno sostenuto che le identità di ruolo sono tra un tipo di identità sociale che deriva da relazioni interpersonali all'interno di un più ampio contesto di gruppo.
Dunque quello che precedentemente è stato chiamato idolum aliorum si può distinguere in un’«identità relazionale» e un’«identità conoscitiva», non nel senso che la prima offre una relazione e la seconda conoscenza, ma nel senso che la prima offre conoscenza attraverso la relazione sociale e la seconda offre conoscenza attraverso la coscienza del «me». Per esempio, riprendendo l’esempio dello scrittore alto e dotto, l’identità di «scrittore» rientrerebbe nell’identità relazionale, in quanto è una relazione una relazione sociale, mentre invece «alto» rientrerebbe nell’identità conoscitiva, ed infine «dotto» rientrerebbe ancora in quella relazionale, essendo data dalla relazione sociale che identifica un individuo come alto e uno come basso.
Identità come funzione sociale
Arriviamo ora ad un dato fondamentale: l’identità ha il ruolo di fornire una funzione sociale, e dunque un luogo, all’individuo. Nel caso in cui, infatti, un individuo sia privo di identità sociale è privo anche di posto all’interno della società e dunque di una funzione che sia riconosciuta.
Si prenda per esempio la variabile «lavoro» dell’identità. La si può vedere meccanicamente come attributo di compiere ripetutamente un’azione nel tempo, oppure ontologicamente come una caratteristica dell’essere. Si pensi al semplice modo di comunicare il proprio lavoro: “Io faccio l’insegnante” è un attributo dell’individuo nel senso che compie un’azione nel tempo (e.g. «insegnante» è attributo di compiere l’azione di insegnare); dall’altra parte “Io sono l’insegnante” è un modo di categorizzare l’essere, è una specificazione dell’individuo su un campo ontologico; non è un’azione che si compie nel tempo, ma è una tipologia d’essere (e.g. non compio l’azione di insegnare, bensì sono ontologicamente un’insegnante, sono l’essere insegnante, non il fare). Se si comprende questo concetto si capisce come nel primo caso il fare l’insegnante non ha più valore sociale del fare un’azione comune come cucinare, mentre nel secondo l’essere insegnante, essendo una caratteristica dell’essere, è un condizionamento assoluto. Se si è un insegnante si ricopre un ruolo, non si fa qualcosa, si è qualcosa. Questo qualcosa all’interno della società ha un luogo, un valore, una funzione, un giudizio. Si prenda per esempio una differenza tra individuo x e individuo y nella variabile identitaria della «lavoro»: individuo x è cuoco, individuo y è invece deputato parlamentare. Il cuoco avrà un valore sociale minore rispetto al deputato politico e dunque questo valore si ripercuote sull’individuo rispettivo (se, come spesso accade nella società capitalistico-consumista, si vede questa variabile con valore ontologico e non attributivo), più avanti il primo ha una diversa funzione dal secondo, uno sfama i clienti, l’altro si occupa di legiferare per portare benessere alla popolazione.
Tutto ciò però non vale solo per la variabile lavoro, che tuttavia è diventata forse una delle componenti più importanti dell’identità di un individuo, ma anche per tutte le altre variabili (e.g. orientamento politico, religioso, ideologico; aspetto fisico; carattere ecc.).
Dunque, una volta compreso questo, si comprende come l’identità di un individuo sia non solo una conoscenza del «me», ma anche un fattore che stabilisce il nostro scopo, funzione e posto all’interno della società. Se un individuo manca di identità, manca necessariamente di posto. Una persona anonima, priva di identità non avrà posto nella società in quanto non sarà identificabile in nulla se non in un generico anonimato L’assenza di identità a livelli profondi e su grande scala da origine a fenomeni quali massificazione, omologazione ecc.
Note:
[1] Traducibile in: “Il fatto di essere, o sentire di essere un particolare tipo di individuo, organizzazione ecc.” [2] Cambridge Dictionary, Identity, https://dictionary.cambridge.org/it/dizionario/inglese/identity 12 Colman, Andrew M, Social identity theory, A Dictionary of Psychology, Oxford University Press, 2008, https://www.oxfordreference.com/view/10.1093/acref/9780199534067.001.0001/acref-9780199534067-e-7747. [4] Olson, Eric T., Personal Identity, A cura di Edward N. Zalta, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2022, Metaphysics Research Lab - Stanford University, [5] Luigi Pirandello, Uno Nessuno Centomila, Skylabstudios, pag. 150, pdf. https://www.skylabstudios.it/unonessunocentomila/pirandello_uno_nessuno_centomila.pdf [6] Ashforth, Blake E. and Schinoff, Beth S., Identity Under Construction: How Individuals Come to Define Themselves in Organizations, Annual Review of Organizational Psychology and Organizational Behavior, Vol. 3, N° 1, pp. 111-137, 2016, doi 10.1146/annurev-orgpsych-041015-062322, https://www.annualreviews.org/doi/pdf/10.1146/annurev-orgpsych-041015-062322 [7] Brewer, Marilynn B., The Many Faces of SocialIdentity: Implications for Political Psychology, Political Psychology, Vol. 22, N° 1, 115-125, 2002, Published on behalf of the International Society of Political Psychology, doi: https://doi.org/10.1111/0162-895X.00229, https://onlinelibrary.wiley.com/doi/pdf/10.1111/0162-895X.00229 [8] Brewer, Marilynn B., The Many Faces of SocialIdentity: Implications for Political Psychology, Political Psychology, Vol. 22, N° 1, 115-125, 2002, Published on behalf of the International Society of Political Psychology, doi: https://doi.org/10.1111/0162-895X.00229, https://onlinelibrary.wiley.com/doi/pdf/10.1111/0162-895X.00229